Ora, è vero che l’Italia si sta sempre più provincializzando e la politica estera – non solo nei palazzi del potere ma anche sui giornali – viene considerata poco più di un orpello, salvo quando viene declinata e immiserita in beghe interne. E’ vero, e Globalist lo ha documentato con decine di articoli e interviste, che l’italietta non tocca più palla da anni nel Mediterraneo, che siamo stati messi fuorigioco Libia, che siamo tenuti sotto scacco da autocrati sanguinari come Erdogan e al-Sisi. E’ vero tutto questo. Ma c’è un limite a tutto. E questo limite della decenza il senatore di Rignano lo ha abbondantemente superato. Perché ha aperto una crisi inspiegabile, direte voi. Perché con il suo ego ipertrofico ha bisogno di sentirsi sempre al centro della scena politico-mediatica anche se il partitino che ha fatto nascere ha un consenso da prefisso telefonico. Tutto vero, ma c’è qualcosa di più che dovrebbe scatenare un sussulto d’indignazione in un Paese che si dice rispettoso dei diritti umani, un Paese cofondatore di quell’Unione Europea che si fa vanto di avere il rispetto dei diritti e della dignità di ogni essere umano a fondamento della sua costituzione.
Limite oltrepassato
Impegnati a dedicare vagonate di pagine, piene zeppe di di retroscenismi improbabili e interviste “sdraiate”, sulla crisi di governo, alla ricerca spasmodica del “costruttore” di turno da far uscire dal meritato anonimato, i giornali mainstream hanno relegato il viaggio del capo di Italia Viva in Arabia Saudita a notizia di colore, mettendo più che altro in evidenza il compenso – 80 mila euro – ricevuto dall’ex premier per un discorsetto di una ventina di minuti svolto in un meeting internazionale.
Di nuovo, il vizietto provincialista. Che qualcuno paghi 80mila euro per sentire una lezioncina del senatore di Rignano, sono fatti suoi, e per i regnanti sauditi 80mila euro sono come la mancia a un posteggiatore abusivo.
Quello che non è folclore ma è politica, è altro. E’ il fatto che un politico che fino a pochi giorni fa faceva parte della maggioranza di Governo e che oggi dal basso del suo 2% accreditato dai sondaggi, si permetta di tenere in scacco l’Italia, abbia spinto la sua improntitudine fino al punto di esaltare il “Rinascimento” saudita. E che lo stesso sia a libro paga del ’FII Insitute controllato dal potente fondo sovrano saudita, il Saudi public investment Fund (Pif)
Sì, avete letto bene: “Rinascimento”. Che l’ex sindaco di Firenze non sia molto ferrato in storia è cosa risaputa. Ma abbinare la parola “Rinascimento” ad una monarchia teocratica che giustizia i minorenni, decapita gli omosessuali, fa letteralmente a pezzi, chi osa opporsi.
Il caso Khashoggi
Il “Rinascimento” saudita, esaltato da Renzi, ha nel caso Khashoggi una delle sue vette vergognose. Partiamo dalla fine. Sette settembre 2020. I giudici del processo per l’omicidio a Istanbul di Jamal Khashoggi , il giornalista saudita ucciso il 2 ottobre 2018 hanno condannato in via definitiva 5 imputati a 20 anni di prigione e altri 3 a pene tra 7 e 10 anni rivedendo un precedente verdetto che prevedeva cinque condanne a morte. Lo rende noto la procura di Riad, citata da Al Arabiya
In genere, in Arabia Saudita, gli omicidi vengono condannati con la pena di morte o l’ergastolo ma le pene vengono ridotte se i famigliari delle vittime “perdonano” l’assassino in cambio di soldi o altro. In questo caso, un portavoce della Procura ha detto che il verdetto “è stato emesso dopo il decadimento del diritto privato, con la rinuncia secondo la Shariya, dei familiari della vittime”.
A maggio la famiglia dell’ex editorialista del Washington Post aveva dichiarato di “perdonare” i killer, aprendo così la strada a una revisione della condanna a morte inflitta in primo grado ai 5 imputati.
L’annuncio era giunto nelle ultime ore del mese di Ramadan, in linea con la tradizione islamica che permette simili gesti di clemenza, accompagnato da forti polemiche per i precedenti trasferimenti da parte delle autorità del Regno di denaro e altri beni ai figli del reporter.
Khashoggi è stato ucciso nel consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul il 2 ottobre 2018 da dei sicari. I suoi resti non sono mai stati ritrovati. Il governo saudita ha parlato di un’operazione non autorizzata di servizi deviati, negando ogni coinvolgimento del principe ereditario Mohammed bin Salman, finito invece nel mirino dei sospetti della Cia e degli esperti dell’Onu, oltre che della Turchia.A luglio era stato aperto un processo in contumacia contro 20 sauditi a Istanbul, accusati di aver fatto parte dello ‘squadrone della morte’ inviato dall’Arabia Saudita.
La fidanzata di Jamal Khashoggi, Hatice Cengiz, ha definito “una farsa” la sentenza del tribunale e ha accusato Riad di voler chiudere questo caso senza indicare la verità sul mandante dell’assassinio.
In un primo momento Riad aveva rifiutato di ammettere di conoscere il luogo in cui si trovava il giornalista e solo in un secondo momento ha riconosciuto che il giornalista era stato assassinato e smembrato all’interno dell’ambasciata.
Il verdetto saudita sul caso Khashoggi è “l’ennesimo atto di questa parodia della giustizia”, queste sentenze “non hanno legittimità legale o morale al termine di un processo che non è stato né giusto né trasparente” ha scritto su Twitter la responsabile Onu per le esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie Agnes Callamard.
Callamard ha denunciato inoltre come “i funzionari di alto livello che hanno organizzato l’esecuzione siano rimasti liberi fin dall’inizio” mentre il principe saudita Mohammed Bin Salman “è stato protetto da ogni tipo di indagine significativa nel suo Paese”.
In lode di Mbs
Uno dei caratteri più lodati dal senatore Renzi del “Rinascimento” saudita, di cui il principe ereditario Mohammad bin Salman (MbS per i media internazionali) è il massimo artefice, riguarda, udite, udite, “l’invidiabile basso costo del lavoro “ a Riad. “Non posso parlare del costo del lavoro a Riad perché come italiano sono molto invidioso”. Elogiare il costo del lavoro saudita non vuol dire soltanto chiudere un occhio sui metodi brutali del Paese, ma di fatto avallarli.
Come funziona allora l’invidiabile costo del lavoro saudita? A raccontarlo su wired.it è un documentato articolo di Luigi Mastrodonato. “Nel Paese mediorientale lo sfruttamento e gli abusi nei confronti dei lavoratori sono talmente diffusi che vari report delle organizzazioni internazionali e delle associazioni dei diritti umani parlano direttamente di schiavismo. Come sottolinea Human Rights Watch, questo riguarda soprattutto la manovalanza straniera, che occupa il 76% del settore privato e, di fatto, vive alla totale dipendenza di un datore di lavoro che ne sponsorizza l’ingresso e l’uscita del Paese e che comanda sulla sua quotidianità, tra blocchi degli stipendi, straordinari non retribuiti e violenze – insomma, al di fuori di ogni tutela di base. Nel Paese l’attività sindacale è vietata e lo stesso vale per gli scioperi: la condizione precaria di milioni di lavoratori è dunque una via senza uscita, perché mancano i mezzi per provare a risollevarsi. Nel 2017, 49 immigrati hanno improvvisato uno sciopero per il mancato versamento degli stipendi e in risposta hanno ricevuto quattro mesi di carcere e 300 frustate.
Al di là dei lavoratori stranieri, un capitolo a parte riguarda le donne. Nel 2019 il Global Gender Gap Report posizionava l’Arabia Saudita 146esima su 153 Paesi analizzati, solo una donna su quattro lavora in un Paese dove l’accesso allo stadio e la guida di un’automobile per il sesso femminile sono conquiste recenti e una donna guadagna il 54% di un uomo che occupa la stessa posizione. Ma in generale, il giogo dello sfruttamento vale un po’ per tutti nel paese. Mentre nell’Italia messa in ginocchio dalla pandemia si predisponevano blocchi dei licenziamenti, casse integrazione e bonus vari, in Arabia Saudita veniva introdotta una nuova regolamentazione che consente agli imprenditori di tagliare in modo unilaterale gli stipendi alla propria forza lavoro fino al 40% e di cambiare senza negoziazione i loro contratti.
Eccolo il contesto del basso costo del lavoro saudita tanto invidiato da Matteo Renzi – rimarca Mastrodonato -. Senza sindacati, senza scioperi, senza tutele salariali, in un contesto di totale subordinazione dei lavoratori ai loro padroni e senza l’ostacolo delle battaglie per la parità di genere sul mercato del lavoro, il terreno è fertile per la crescita e lo sviluppo per “il nuovo Rinascimento saudita”
Incompatibilità
Nelle stesse ore, o quasi, in cui l’uomo che vuole dettare il futuro dell’Italia riscuoteva la parcella per la sua conferenza e sproloquiava di “Rinascimento” saudita, il Governo da lui silurato compiva un atto di segno opposto. A darne conto è il mondo solidale e pacifista.
Rimarca in una nota ufficiale la Rete Italiana Pace e Disarmo:
“Con un atto di portata storica – che avviene per la prima volta nei 30 anni dall’entrata in vigore della Legge 185 del 1990 sull’export di armi – il Governo Conte ha deciso di revocare, non solo sospendere, le autorizzazioni in corso per l’esportazione di missili e bombe d’aereo verso Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Continua inoltre a rimanere in vigore anche la sospensione della concessione di nuove licenze per i medesimi materiali e Paesi.
Secondo quanto appreso dalla Rete Italiana Pace e Disarmo il provvedimento riguarda almeno 6 diverse autorizzazioni già sospese con decisione presa a luglio 2019 tra le quali la licenza MAE 45560 decisa verso l’Arabia Saudita nel 2016 durante il Governo Renzi (relativa a quasi 20mila bombe aeree della serie MK per un valore di oltre 411 milioni di euro). Secondo le elaborazioni di Rete Pace Disarmo e Opal la revoca decisa dall’Esecutivo per questa sola licenza andrà a cancellare la fornitura di oltre 12.700 ordigni.
Le nostre organizzazioni Amnesty International Italia, Comitato Riconversione RWM per la pace ed il lavoro sostenibile, Fondazione Finanza Etica, Medici Senza Frontiere, Movimento dei Focolari, Oxfam Italia, Rete Italiana Pace e Disarmo, Save the Children Italia insieme ai partner internazionali European Center for Constitutional and Human Rights e Mwatana for Human Rights esprimono grande soddisfazione per questo risultato, da loro fortemente richiesto, che diventa operativo in queste ore.
Una decisione che pone fine – una volta per tutte – alla possibilità che migliaia di ordigni fabbricati in Italia possano colpire strutture civili, causare vittime tra la popolazione o possano contribuire a peggiorare la già grave situazione umanitaria nel Paese. Un atto che, soprattutto, permette all’Italia di essere più autorevole sul piano diplomatico nella richiesta di una soluzione politica al conflitto.
Un sincero ringraziamento è dovuto ai membri del Parlamento ed in particolare della Commissione Esteri della Camera che hanno dedicato attenzione a questo tema, proponendo ed approvando un’importante Risoluzione nel dicembre 2020 che ha impegnato in primo luogo l’esecutivo a prorogare la sospensione all’export di armamenti verso i due Paesi della Penisola arabica. Esprimiamo inoltre soddisfazione per la rapidità e la fermezza con cui il Governo ha dato seguito a questo atto di indirizzo, orientandosi non solo verso la proroga della sospensione disposta nel luglio 2019 ma revocando anche le precedenti licenze come proposto dall’atto parlamentare.
Ringraziamo anche i numerosi sostenitori che ci hanno accompagnato e sostenuto nelle varie campagne di sensibilizzazione e attività di comunicazione su questo tema. La rilevanza che la questione della guerra in Yemen ha avuto e continua ad avere nell’opinione pubblica è stata uno stimolo ed un pungolo per i decisori politici. È fondamentale continuare a lavorare congiuntamente per mantenere alta l’attenzione e allargare la sospensione a tutte le categorie di armamento e verso tutti i membri della coalizione a guida saudita, proposta prospettata dalla stessa Risoluzione parlamentare del dicembre 2020.
Un rapporto del Gruppo di esperti delle Nazioni Unite consegnato al Consiglio di Sicurezza nel gennaio del 2017 ha dichiarato che i bombardamenti della coalizione a guida saudita ‘possono costituire crimini di guerra’. Tra gli ordigni ritrovati dai ricercatori dell’Onu figurano anche le bombe prodotte dalla RWM Italia. Lo stesso Parlamento Europeo a settembre 2020 ha approvato ad ampia maggioranza una Risoluzione che condannando le azioni di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti invita il Vicepresidente/Alto rappresentante ad ‘avviare un processo finalizzato ad un embargo dell’UE sulle armi’ verso gli stessi Paesi.
La decisione del Governo di revoca di queste licenze conferma dunque la necessità di indagare sulla responsabilità penale di UAMA e RWM Italia nelle esportazioni di bombe della serie MK durante il periodo del conflitto, come denunciato alla magistratura da alcune delle nostre organizzazioni ora in attesa di una decisione del Gip in merito al proseguimento dell’indagine.
Lo stop all’invio di missili e bombe d’aereo verso Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti non può da solo far cessare la guerra in Yemen ed alleviare le sofferenze di una popolazione stremata da conflitto, carestia e malattie, ma costituisce un passo necessario a creare le precondizioni per la Pace. In tal senso le nostre organizzazioni ricordano anche al Governo italiano la necessità di proseguire il sostegno all’azione umanitaria coordinata dalle Nazioni Unite confermando ed aumentando il contributo finanziario dell’Italia al Piano di risposta umanitario Onu”.
“Dando corso alla Risoluzione della Commissione Esteri della Camera, il Governo ha revocato le esportazioni di armi verso Arabia Saudita e Emirati. Un contributo concreto a fermare la guerra civile in Yemen. I conflitti si risolvono con negoziati e non con le armi”, scrive su Twitter Piero Fassino, presidente della Commissione esteri della Camera.
Globalist si unisce al plauso, riconoscendo al Governo in carica un atto importante, concreto, coraggioso in un campo minato come è quello della vendita di armi. A questo Governo, il cantore del “Rinascimento” arabico ha tolto la spina. Una buona ragione in più per dirsi addio.
PS. Visto l’importante incarico, quello di presidente del Consiglio, che ha ricoperto, e visto che è membro della Commissione difesa del Senato, perché non c’è uno, dicasi uno, componente del Copasir che ha chiesto un’audizione del senatore-ex premier alla luce dei suoi rapporti con l’Arabia Saudita?
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