A Renzi dico: se l’Arabia Saudita è un baluardo contro l’estremismo, Ruby è la nipote di Mubarak
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A Renzi dico: se l’Arabia Saudita è un baluardo contro l’estremismo, Ruby è la nipote di Mubarak

Il capo di Italia viva giustifica il Paese che ha finanziato le madrasse in Pakistan e nel mondo in cui sono stati “armate” ideologicamente generazioni di jihadisti. Il Paese culla del wahabismo, integralista

L'attentato dell'11 settembre 2001 alle torri gemelle
L'attentato dell'11 settembre 2001 alle torri gemelle
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

31 Gennaio 2021 - 11.33


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Il Paese di Osama bin Laden. Il Paese di Mohammed Atta e dei “guerrieri di Allah” dell’11 Settembre. Il Paese che ha finanziato le madrasse in Pakistan e nel mondo in cui sono stati “armate” ideologicamente generazioni di jihadisti. Il Paese culla del wahabismo, la corrente più integralista dell’integralismo sunnita. Il Paese che per decenni ha finanziato in tutto il Medio Oriente i gruppi qaedisti. In una parola, l’Arabia Saudita. Questa è storia. Su questo sono stati scritti decine, centinaia di libri, migliaia di articoli. Ma tutto ciò per il senatore della Repubblica italiana Matteo Renzi non esiste. Scompare. Nel tempo in cui la realtà è la percezione, il senatore Renzi narra la sua storia. 

Oltre ogni limite

Una storia in pillole che l’ex premier consegna a Maria Teresa Meli che l’ha intervistato per il Corriere della Sera. Lasciamo ai patiti del retroscenismo la decifrazione dei messaggi interni lanciati dal prode Matteo. Chi scrive, più umilmente, riporta, trasecolando, le seguenti, puntute considerazioni, che sul Regno Saud l’intervistato dà alla sua intervistatrice. “Quanto all’Arabia Saudita, soltanto chi non conosce la politica estera ignora il fatto che stiamo parlando di uno dei nostri alleati più importanti…se vogliamo parlare di politica estera diciamolo: è grazie a Riyadh che il mondo islamico non è dominato dagli estremismi”.

Sì, avete letto bene. E’ tutto vero. Neanche Donald Trump, che pure con i regnanti sauditi ha avuto a che fare (affari miliardari) si è mai spinto a tanto. 

Lasciamo stare la prosopopea di cui il capo di Italia Viva è un campione mondiale (“Soltanto chi non conosce la politica estera…”). Qui siamo nel regno delle spacconate del “bomba”.

E’ il resto che sgomenta. Che preoccupa, visto che a spararla grossa non un Razzi qualsiasi ma l’uomo che, dal basso del suo 2,5 per cento accreditagli dai sondaggi, sta tenendo in ostaggio l’Italia. 

Per rinfrescare la memoria

L’Arabia Saudita e gli Emirati suoi principali alleati nella guerra contro i ribelli sciiti nello Yemen, hanno passato armi americane a gruppi legati ad al Qaeda e all’Isis. A rivelarlo non sono stati media schierati contro Riyadh e Abu Dhabi ma l’americanissimo canale all news Cnn. Non basta. L’agenzia di stampa Ap in un rapporto pubblicato il 6 agosto scorso, ha sottolineato la partnership saudita ed emiratina con al-Qaeda. Secondo il rapporto, la Brigata Abu al-Abbas è in possesso di veicoli blindati e armi di fabbricazione statunitense. Abu al-Abbas, il fondatore di questa forza allineata ad al-Qaeda, nel 2017 è stato inserito nella lista nera dagli Stati Uniti per i finanziamenti delle filiali di al-Qaeda e Isis nello Yemen. 

Non è ancora sufficiente? E allora, leggete questa: l’’Fbi ha rivelato forse per errore l’identità di un diplomatico saudita, sospettato di aver offerto un sostegno importante ai terroristi legati ad al-Qaeda e autori degli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti. Il nome di Mussaed Ahmad al-Jarrah, funzionario del ministero degli Esteri che ha lavorato all’ambasciata saudita a Washington fra il 1999 e il 2000, è contenuto in una dichiarazione rilasciata ad aprile alla Corte federale da Jill Sanborn, direttrice aggiunta della divisione anti-terrorismo. Il documento, secretato fino a poco tempo fa, , si inserisce nel contesto di un processo intentato dalle famigli delle vittime dell’attacco terroristico al World Trade Center (e Washington) all’Arabia Saudita, accusata di “complicità”. Questa è la prima volta che informazioni rese pubbliche legano in via ufficiale un alto funzionario saudita agli attentati.

Da Riyadh non si registra alcuna reazione ufficiale alla notizia, che rischia di rilanciare le accuse di legami – se non di connivenze – fra il commando che ha sferrato gli attacchi e il regno wahhabita. Del resto ben 15 dei 19 pirati dell’aria erano cittadini sauditi e la stessa amministrazione Obama, in passato, aveva posto il veto a una legge che avrebbe reso “imputabile” la monarchia. “Questo dimostra che vi è stato un completo occultamento da parte del governo (statunitense) del coinvolgimento saudita” afferma Brett Eagleson, uno dei portavoce dei parenti delle vittime. “È – aggiunge – una gaffe enorme”.

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Se Riyadh ha più volte negato negli anni ogni addebito, a più riprese sono emersi rapporti e documenti che smentiscono – almeno in parte – questa affermazione. Nel 2016 uno studio di 28 pagine declassificato dal Congresso Usa rivelava un sostegno finanziario o logistico dato agli attentatori da parte di personalità saudite. Sospetti avallati dai risultati di una inchiesta congiunta di New York Times e ProPublica intitolata “Operazione ancora”, che rivelava intrecci fra gli estremisti islamici e il governo arabo.

La testimonianza di Jill Sanborn è contenuta all’interno di un rapporto del 2012, parte del quale è stato declassificato; gli avvocati dell’alto funzionario dell’Fbi hanno omesso di cancellare il nome di Mussaed Ahmad al-Jarrah prima che il rapporto fosse pubblicato. Egli sarebbe il “terzo uomo” che ha “accusato” Fahad al-Thumairy, agente del ministero saudita degli Affari islamici e imam della moschea di re Fahd a Los Angeles, agente sotto copertura di Riyadh, di aver assistito a livello logistico i membri del commando che ha colpito il Pentagono.

Cosa dice l’inchiesta

In occasione del nono anniversario dell’attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono, Alfredo Mantici scrive su babilionmagazine.it un documentato report dal titolo: 11 Settembre. Qual è stato il vero ruolo dell’Arabia Saudita.

“Cosa contengono queste 28 pagine di tanto delicato se due presidenti, uno repubblicano, George W. Bush, e uno democratico, Barack Obama, le hanno coperte col segreto per tanti anni? Ebbene – rimarca Mantici –  contengono informazioni tratte da documenti della Cia e dell’Fbi e da testimonianze di funzionari di ambedue questi organismi ascoltati dalla Commissione bicamerale, che è eufemistico definire imbarazzanti sia per il governo dell’Arabia Saudita che per le Amministrazioni Usa che hanno preceduto quella guidata dall’attuale presidente Donald Trump: il primo emerge come possibile complice degli attentatori dell’11 settembre, le seconde come le responsabili di un “cover up”, dunque di un silenzio ufficiale spiegabile soltanto con la volontà di salvaguardare l’alleanza e i legami economici che uniscono Washington e Riad da oltre mezzo secolo. Scrivono infatti i membri della Commissione nella loro relazione: “Mentre si trovavano negli Stati Uniti alcuni dei dirottatori dell’11 settembre ricevettero supporto e assistenza da personaggi che possono ritenersi collegati al governo saudita. Ci sono informazioni da fonti dell’Fbi secondo le quali almeno due di questi personaggi erano funzionari dell’intelligence saudita”.

Il profilo dei complici dei dirottatori

I due personaggi principali di cui si parla nelle 28 pagine rimaste segrete per un quindicennio sono Omar Bayoumi e Omar Bassnan, entrambi cittadini sauditi ed entrambi fuggiti dagli Stati Uniti poche settimane dopo gli attentati di New York e di Washington. Secondo l’FBI, Omar Bayoumi era “chiaramente un funzionario dell’intelligence saudita” con uno stipendio pagato sia da compagnie di stato saudite che direttamente dalla moglie dell’ambasciatore saudita a Washington, il principe Bandar, con assegni tratti dal suo conto corrente personale per somme che sono decisamente aumentate quando il commando di 19 terroristi di Al Qaeda che avrebbero poi compiuto gli attentati (15 dei quali di cittadinanza saudita) è arrivato negli Stati Uniti. È stato Bayoumi che ha accolto al loro arrivo a San Diego nel febbraio del 2000 due dei dirottatori, Nawaf Al Hazmi e Khalid Al Midhar, trovando loro un appartamento in affitto e firmando col suo nome come garante il relativo contratto. Ma, soprattutto, è stato lui ad avergli ‘fornito informazioni sulle scuole di volo’.

Omar Bassnan, che secondo il rapporto ‘aveva molti legami con il governo saudita’, lavorava in stretto collegamento con Bayoumi e viveva durante il soggiorno a San Diego dei due terroristi sauditi in un appartamento vicinissimo al loro. In un colloquio con un informatore dell’Fbi si è addirittura vantato di aver fatto «più di Bayoumi a sostegno dei due dirottatori».

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Anche Bassnan riceveva fondi dall’ambasciatore saudita e dalla moglie. Durante una perquisizione del suo appartamento l’FBI ha trovato tracce documentali di rimesse per 74.000 dollari provenienti dai conti della famiglia del principe ambasciatore. Sul conto della moglie di Bandar è stato trovato un ordine di bonifico permanente a favore di Bassnan per «servizi di assistenza» non meglio specificati (la famiglia Bandar viveva a Washington, a 5.000 chilometri da San Diego).

Le 28 pagine contengono molte altre dettagliate notizie su altri personaggi legati al governo saudita e con provati legami con Al Qaeda sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo. Uno dei capi di al-Qaeda, Abu Zubaydah, arrestato in Pakistan nel marzo del 2002, aveva indosso al momento della cattura una rubrica telefonica che conteneva, tra l’altro, il numero riservato del telefono della casa di Aspen, in Colorado, del principe Bandar (il quale, è bene ricordarlo, si vantava di pranzare almeno una volta alla settimana con il presidente Bush e col vice presidente Dick Cheney) e quello del capo delle sue guardie del corpo…”.

Il tutto ispirato dalla corrente più integralista nel mondo musulmano sunnita: il wahabismo. 

Integralismo di Stato: il wahabismo

Il aahabismo  – che prende inome dal suo fondatore, Mohammed Ibn Abdel Wahab (1703-1792;) – si sviluppa lungo il filone salafita e si rifa’ all’Islam dei primordi, quello della tradizione non contagiata dal tempo e dal mutare dei costumi. Un purismo tramutatosi in radicalismo poi esportato con la forza dei petrodollari. I fedeli del wahabismo rifiutano di essere definiti “wahabisti”, ma solo “musulmani” in quanto si ritengono gli unici detentori della dottrina islamica. L’aspetto più pericoloso del wahabismo è l’alimentare una cultura religiosa di intolleranza ed una lotta endogena senza quartiere sia verso i musulmani “infedeli”, sia verso quelli che non accettano le teorie salafite (l’adorazione dei santi e degli uomini pii è considerata alla stregua del politeismo). Sul fronte esterno ed esogeno, il wahabismo contrasta gli infedeli propriamente detti (come i cristiani e gli ebrei). Una lotta alle infedeltà’ (in arabo “kufr”) sulla base del proprio approccio teologico, considerato l’unico, vero ed imprescindibile sentiero giusto dell’Islam. Nessuno spazio è  offerto all’unificazione delle scuole di pensiero islamico (“madhahib“). Chiunque non segua i “veri” insegnamenti dell’Islam (quelli ovviamente indicati dal Wahabismo) è  un “Jahili” (cioè “infedele”).

Per dare un’idea della furia iconoclasta del wahabismo, quando conquistava nuovi territori Al Wahab distruggeva tutti i sepolcri musulmani che incontrava. Arrivato alla conquista della Mecca e di Medina, riservò  lo stesso trattamento alla tomba e luogo di culto di Maometto. Tuttora i devoti di Wahab rifiutano la sepoltura in tombe, proibiscono i festeggiamenti per il compleanno di Maometto ed ogni altra forma di celebrazione islamica. Dio e’ unico e solo a lui e’ dedicata ogni forma di devozione.

Il risultato è  un mondo congelato nel passato, senza spazi per l’evoluzione di una società  o dei suoi costumi. Il wahabismo ha fermato sul nascere il suo cammino verso la modernità di intenti o idee. Tuttora l’apostasia è punita con la pena di morte, il culto di altre religioni o l’esposizione dei loro simboli sono proibiti e perseguitati nel regno saudita. I reati di religione possono essere anche perseguiti con la crocifissione.

Fra tutti i Paesi arabi e musulmani solo in Arabia Saudita il salafismo di interpretazione wahabita è nei fatti ispirazione dogmatica di uno Stato. Il peso finanziario del Paese in cui tale movimento si è affermato ha fatto sì che questa dottrina si sia diffusa con particolare crescita in molti Paesi musulmani. E se si volesse trovare oggi un comune denominatore ideologico al terrorismo islamico e al jihad diffusisi in molti parti del mondo questo sarebbe soprattutto il wahabismo. Osama Bin Laden, Ayman Al Zahawiri, gli Shabaab somali, i vari movimenti irredentisti che sono apparsi nel nord del Mali, Boko Haram nigeriani, i talebani afghani sono tutti accomunati da questo comune approccio dottrinale.

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MbS il “riformatore”

Tutto vero, potrebbe forse ammettere il senatore di Rignano, ma di certo aggiungerebbe: ora però le cose stanno cambiando, ora che a delineare un futuro “rinascimentale” per il Regno c’è il giovane, moderno, ambizioso principe ereditario Mohammad bin Salman, per i media internazionali Mbs, che Renzi ha intervistato nei giorni scorsi in una conferenza a Riyadh con una imbarazzante intervista che neanche Emilio Fede con l’adorato Berlusconi. 

Lawrence Wright, è uno dei migliori giornalisti americani, inviato del New Yorker, e ha raccontato cos’è successo l’11 settembre in un libro premio Pulitzer, Le Altissime Torri, che è ancora oggi la ricostruzione più informata ed esaustiva dell’attentato. Wright ha lavorato in Arabia Saudita, a Gedda, conosceva molto bene Khashogg, il giornalista e dissidente saudita fatto a pezzi nel consolato di Istanbul da agenti dei servizi sauditi alle strette dipendenze del “riformatore” MbS.  Tre mesi fa   su Showtime è uscito Kingdom of Silence, un documentario di cui è autore che ripercorre la vita del giornalista e i passaggi chiave della relazione “tossica” tra gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita. In una bella intervista di Gabriella Colarusso per Repubblica, alla domanda: Cosa pensava (Khashoggi) di Mbs? 
“Che fosse il più grande dittatore che l’Arabia Saudita avesse mai avuto – è la risposta di Wright -.  Stava facendo alcune riforme per conquistare popolarità ma non poteva tollerare che qualcuno le chiedesse. Ha abolito il divieto per le donne di guidare, ma le donne saudite che hanno fatto campagne per l’abolizione del divieto sono in prigione. Jamal era nella loro stessa posizione. Quando ha cominciato a scrivere sul Washington Post è diventato ancora meno controllabile. Aveva una voce autorevole nella capitale degli Stati Uniti”. 
Un anno prima di essere ucciso aveva accettato di parlare con l’avvocato delle famiglie delle vittime dell’11 settembre. Quello che sapeva del coinvolgimento di alcuni sauditi, e dei rapporti tra sauditi e al-Qaeda, c’entra con il suo omicidio? domanda l’intervistatrice.
“Ne sono sicuro – risponde Wright -.  Le famiglie dell’11 settembre chiedono che vengano riconosciute le responsabilità saudite e in una certa misura hanno avuto successo. Alcuni fatti sono emersi sui finanziamenti, l’addestramento degli attentatori. Sappiamo per esempio che la moglie del principe Bandar inviò denaro ad alcune persone che hanno aiutato gli attentatori quando erano negli Stati Uniti prima dell’11 settembre. Ma i sauditi non hanno mai riconosciuto alcuna responsabilità. Robert Jordan, che era ambasciatore Usa in Arabia Saudita quando ci fu l’11 settembre, incontrò il principe Salman che all’epoca era governatore di Riyadh e uno dei fundraiser di al Qaeda e gli chiese: ‘Principe perché 15 dei 19 attentatori sono sauditi?’ E Salman rispose: ‘I sauditi non hanno nulla a che fare con l’11 settembre, è stato un complotto israeliano’. Ora Salman è re”.  

“E’ grazie a Riyadh che il mondo islamico non è dominato dagli estremismi”: la storia secondo Matteo. Se l’ironia è la modalità più tagliente per mettere alla berlina fesserie del genere, allora ci viene in aiuto un altro principe: Antonio De Curtis, in arte Totò: “Ma mi faccia il piacere”. Basta cambiare il nome del destinatario: dall’immaginario onorevole Trombetta, al reale senatore Renzi. E visto che ci siamo, chiedendo scusa all’inarrivabile Totò, aggiungiamo noi: se l’Arabia Saudita è un baluardo contro l’estremismo, Ruby è la nipote di Mubarak. 

 

 

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