Siria,13 marzo 2011-13 marzo 2021. Dieci anni dall’inizio dell’apocalisse.
Il suo, è molto più di un grido d’allarme. E’ mettere la comunità internazionale di fronte alla responsabilità di aver chiuso gli occhi sulla più grande tragedia umana dal secondo dopguerra a oggi.
E’ il j’accuse di Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) “In Siria, dieci anni di crisi hanno provocato una condizione di sofferenza umana immane. La comunità internazionale ha deluso i siriani. Come Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, alla guida della risposta a una delle più grandi crisi di rifugiati dei nostri tempi, ho il cuore pesante nei giorni di questa tragica ricorrenza. Essa costituisce per i leader mondiali un monito severo e un forte richiamo del fatto che questo decennio di morti, distruzioni e migrazioni forzate si è compiuto sotto i loro occhi.
Dopo dieci anni, metà della popolazione siriana è stata costretta a fuggire dalle proprie case. Più di 5,5 milioni di persone sono rifugiate nella regione, mentre altre centinaia di migliaia di persone sono fuggite in 130 paesi. Altri 6,7 milioni di siriani sono rimasti sfollati all’interno del proprio Paese. In dieci anni, quasi nessuna città o villaggio è stata risparmiata dalla violenza, e la sofferenza umana e le privazioni vissute da chi è rimasto in Siria sono insostenibili. Il calo degli aiuti, unito alla recessione economica provocata dalla pandemia di Covid-19 hanno spinto i rifugiati siriani a livelli di disperazione senza precedenti. In Libano, nove siriani su dieci vivono in estrema povertà. A ciò si aggiunge che a causa della perdita dei mezzi di sostentamento, dell’aumento della disoccupazione e del Covid-19 anche milioni di giordani, libanesi, turchi e iracheni delle comunità ospitanti vivono oggi sotto la soglia di povertà.
D’altra parte, siamo stati testimoni della straordinaria generosità che ha permesso di salvare milioni di vite siriane. I paesi confinanti con la Siria hanno ospitato milioni di rifugiati siriani, assumendosi grandi responsabilità. Le loro economie, le risorse già scarse, le infrastrutture e le comunità sono sottoposte a una fortissima pressione.
Fuori dalla regione, un’ondata di solidarietà con i rifugiati siriani ha portato molti governi a cambiare politiche e ad intraprendere azioni concrete di aiuto sia per i siriani sia per i paesi ospitanti, attraverso strumenti come il reinsediamento, le riunificazioni familiari, i visti umanitari, le borse di studio e altri percorsi sicuri e regolari. La gravità di questa crisi non deve indebolire la nostra solidarietà verso i siriani. Al contrario, dobbiamo raddoppiare gli sforzi collettivi per sostenere sia i rifugiati che le comunità che li ospitano.
Questo è il minimo che possa essere riconosciuto ai rifugiati siriani e ai paesi della regione”, conclude Grandi.
Cartoline dall’inferno in terra
Mohammed Zakaria vive in una tenda di plastica nella valle della Bekaa, nel Libano orientale, praticamente da quando è iniziata la guerra nella sua patria, la Siria. Lui e sua famiglia sono fuggiti dai bombardamenti nel 2012, pensando che sarebbero tornati presto. La sua città natale, Homs, era sotto assedio, vittima della feroce campagna militare siriana. Quando è scappato dalle bombe non ha nemmeno portato con sé la sua carta d’identità. Quasi 10 anni dopo, la famiglia non è ancora tornata indietro. Zakaria, che ora ha 53 anni, è tra i milioni di siriani che difficilmente, nel prossimo futuro, riusciranno a rivedere i propri luoghi di origine. Nel frattempo, le condizioni di vita da rifugiato si fanno sempre più dure. Zakaria e la sua famiglia infatti ora si trovano a dover lottare per sopravvivere in mezzo alla profonda crisi economica e sociale del Libano. “Siamo venuti con il presupposto che saremmo entrati e usciti”, racconta Zakaria a Associated Press, seduto fuori dalla sua tenda mentre i figli girano per il campo in pantofole logore. La Siria è impantanata in una sanguinosa guerra civile dal marzo del 2011, quando i siriani si sono rivoltati contro il presidente Bashar al-Assad sull’onda delle proteste della cosiddetta ‘primavera araba’. Le manifestazioni in Siria, iniziate nel marzo di quell’anno, si trasformarono rapidamente in insurrezione – e poi in una vera e propria guerra civile – in risposta alla brutale repressione militare da parte dell’apparato di sicurezza di Assad. Quasi mezzo milione di persone sono morte e circa 12.000 bambini sono stati uccisi o feriti durante il conflitto negli ultimi dieci anni, secondo i dati dell’Unicef. La guerra ha anche prodotto la più grande crisi umanitaria dalla seconda guerra mondiale per numero di sfollati, interni e esterni. Il Consiglio norvegese per i rifugiati questa settimana ha reso noto un rapporto secondo cui dal 2011 si stima che 2,4 milioni di persone siano state sfollate ogni anno dentro e fuori la Siria. Ogni anno, centinaia di migliaia di siriani affrontano continui spostamenti mentre le condizioni economiche si deteriorano. La guerra ha lasciato la Siria divisa e in rovina. Quasi un milione di bambini sono nati in esilio. Dei 23 milioni di abitanti del Paese prima della guerra, quasi 5,6 milioni sono rifugiati che vivono nei paesi vicini e in Europa. Circa 6,5 milioni sono sfollati all’interno della Siria, la maggior parte di loro da oltre cinque anni. Il Libano, con una popolazione di circa 5 milioni di abitanti, ospita la più alta concentrazione di rifugiati pro capite, stimata a circa 1 milione. La maggior parte di loro vive in tende di fortuna sparse nella Bekaa libanese, non lontano dal confine siriano. Ex facchino per una ditta di costruzioni di Homs, Zakaria lotta per provvedere alla sua famiglia, anche se questa continua a crescere anche in esilio. Ha due mogli e otto figli, di cui due nati in Libano. Uno dei suoi figli aveva solo un anno quando la famiglia è fuggita dalla Siria. Nel Paese dei cedri il lavoro è sempre più difficile da trovare a causa della crisi economica e l’assistenza sociale è scarsa e irregolare. Il crollo della valuta ha mandato l’inflazione e i prezzi alle stelle. Zakaria ora cerca di sbarcare il lunario vendendo bombole di gas bottiglie di gas usate per il riscaldamento ad altri rifugiati nel suo insediamento. Guadagna 1.000 sterline libanesi (circa 10 centesimi) per ogni bombola di gas che vende. Ma quest’inverno, i suoi vicini nel campo, che ospita circa 200 famiglie di rifugiati siriani, hanno potuto a malapena permettersi di comprare il gas per riscaldare le loro tende. A causa della crisi economica senza precedenti, la moneta libanese ha perso oltre l’80 per cento del suo valore. “La vita è costosa qui”, racconta Zakaria, “È costoso anche per le medicine o i medici”. Quando sua moglie ha avuto bisogno di un’operazione urgente agli occhi, Zakaria ha fatto in modo che potesse rientrare di nascosto in Siria per farla lì. L’intervento sarebbe costato 22 milioni di sterline libanesi – poco meno di duemila euro. Sono riusciti a farlo in Siria per 85.000 sterline libanesi, circa 700 euro. Zakaria è triste per i suoi tre figli più piccoli che non hanno ricordi della Siria e della loro casa a Homs. Non sono nemmeno andati a scuola, e non sanno leggere e scrivere. Secondo l’Unicef, quasi 750.000 bambini siriani sfollati nei Paesi vicini, compreso il Libano, sono senza scuola. “Tutti i nostri ricordi se ne sono andati ora”, si lamenta Zakaria, guardando i figli giocare per strada, “Ora abbiamo una nuova generazione di bambini di 10 anni che non conoscono nemmeno i nostri vicini” a casa. Molti siriani non possono tornare perché le loro case sono state distrutte nei combattimenti, o perché temono la coscrizione militare o la punizione da parte delle forze governative. Zakaria si aggrappa alla speranza di poter un giorno tornare a casa sua: “Se Dio vuole, moriremo nel nostro Paese. Tutti dovrebbero poter morire nel proprio Paese”.
Hamadi: “Ha vinto l’indifferenza”.
“Questo anniversario per me significa in qualche maniera la vittoria di quella che è chiamata indifferenza” e quello che oggi si può fare è “opporre resistenza culturale, continuare a informare nonostante l’oblio a cui è condannata la Siria”, creare una “coscienza civile”. Ad affermarlo, in una intensa intervista ad Aki-Adnkronos, è Shady Hamadi, autore di Esilio dalla Siria e con suo padre Mohamed de La nostra Siria grande come il mondo appena uscito per add editore. “Di fronte all’opinione pubblica – rimarca lo scrittore – non è ancora chiaro come mai questi siriani fossero scesi in piazza a manifestare, non è chiaro il fatto che in Siria ci sia un regime che continua a torturare le persone”. “Ci siamo concentrati molto – afferma – sul fondamentalismo islamico dimenticando però quale è la ragione principale che ha portato alla nascita del fondamentalismo islamico non solo in Siria, ma in Medio Oriente, una conseguenza dell’esistenza dei regimi dittatoriali che governano questi Paesi oramai da decenni”. Per Shady Hamadi, questi dieci anni significano “fare i conti con quelle che sono state illusioni”, ovvero “una solidarietà internazionale che non c’è stata” rispetto a tutto quello che è accaduto in Siria, “quindi una solidarietà verso la società civile siriana”. E oggi, dice, “l’unica cosa che sento che possiamo fare è opporre una resistenza culturale” e “continuare a informare nonostante l’oblio a cui è condannata la Siria, quindi creare una coscienza civile”. E questo perché, afferma nel suo ragionamento, “in fin dei conti” Bashar al-Assad, al potere in Siria dal 2000, “non viene giudicato, non compare davanti a un tribunale internazionale per crimini contro l’umanità”, mentre il processo a Coblenza, in Germania, nei confronti di due ex agenti dei servizi di sicurezza siriani “non serve di fatto a nulla perché non andiamo verso una Norimberga siriana”, ma “stiamo dando forse un contentino all’opinione pubblica internazionale che vi vede una parvenza di giustizia”.
Per Shady Hamadi, che “non crede assolutamente sia stata fatta giustizia in Siria”, quel processo è di fatto “un modo per portare avanti la normalizzazione della Siria”. Dopo anni di sangue, di orrori. “Oggi come oggi, nel 2021, è accettabile – incalza – che continui a essere adoperata la tortura sistematica dell’opposizione in un Paese che è a quattro ore di distanza dall’Italia? E’ accettabile per noi europei oggi incontrare e vedere i volti di questi rifugiati che scappano dalla guerra in Siria e non comprendere da che cosa scappano? Io penso di no. E quindi il loro grido deve arrivare forte e chiaro non solo in Italia, ma a tutte le cancelliere del mondo”. “Come soluzione al conflitto siriano – prosegue – continuo a sostenere che bisogna dare voce alla società civile in Siria”. Quella società civile “che oggi è messa nell’angolo, dimenticata” e che deve invece avere la “possibilità di parlare attraverso un processo di transizione”. Una transizione in Siria che, sottolinea, dovrebbe significare “non solo la fuoriuscita di Assad ma la fuoriuscita di tutte quelle componenti che costituiscono il potere reale e che quindi sono personaggi e apparati di sistema che sono occulti ma che gestiscono tutto il potere siriano”.
Uno scenario, puntualizza però, “purtroppo impossibile” oggi perché la Russia, che dal 2015 sostiene Damasco sul campo, “non vuole far altro che tenere in piedi questo regime per ovvi motivi di influenza nel Medio Oriente”. Shady Hamadi vede Russia, Iran e Turchia (i Paesi garanti del cosiddetto Processo di Astana) come “finti nemici”, che “portano sicuramente avanti le loro agende” con “Iran e Turchia che rispondono a quelli che sono i dettami del Cremlino”. “E’ sempre stato così – osserva – Da una parte c’è stata la Turchia che per anni si è detto fosse contro il regime siriano, mentre oggi invece vediamo che la Turchia svolge un ruolo che è contiguo a quello del regime siriano: ha costruito nel nord del Paese una sua zona cuscinetto di influenza dove ha messo a tacere qualsiasi opposizione autonoma e originale, quelle nate nel 2011, e ha costruito un piano di pacificazione”.
E Shady Hamadi si dice “molto pessimista” anche su un possibile ruolo degli Stati Uniti di Joe Biden. “Credo che l’unica cosa che Biden possa fare è fare pressione su Putin per arrivare a un piano di transizione della Siria, ma – afferma – sinceramente sono molto pessimista su Biden come lo ero su Trump”. Convinto che “ormai ci sia un’egemonia russa in Siria”, Shady Hamadi non crede però che “oggi l’America possa fare qualcosa, perché nel momento in cui fa qualcosa esiste un sentimento antiamericano che risorge immediatamente”.
Una prospettiva? “Io la prospettiva per la Siria non ce l’ho”, replica. E racconta di aver “rinunciato ormai da molto tempo”, con suo padre che manca dalla Siria da almeno 20 anni, “all’idea del ritorno”. “Siamo molto realisti – continua Shady Hamadi che in Siria è stato l’ultima volta nel 2009 per un anno – accettiamo di mal grado questo amaro esilio”. E la soluzione a cui hanno pensato è stata quella di “provare a creare memoria”, perché “oggi viviamo in un’epoca in cui nel Medio Oriente non esiste memoria”. “Chi è morto nelle fosse comuni dell’Isis o del governo siriano avrà mai giustizia? Sarà ricordato? Noi – afferma – non crediamo”. Di qui la scelta di raccontare questi anni attraverso un libro, la scelta – spiega – di “raccontare quelle che sono state le torture subite da mio padre, il suo viaggio da immigrato da un Paese mediorientale per approdare nell’Italia degli anni Settanta con il delitto Moro fino ad arrivare ai giorni nostri”.
Shady Hamadi parla del suo ultimo libro e ricorda le parole di suo padre: “Mi dice sempre: ‘Io alla Siria non ci penso più perché mi fa male'”. Per Mohamed Hamadi la Siria che conosceva “non esiste più perché tutte quelle persone, quegli ideali che avevamo, del panarabismo, del nazionalismo, di una laicità, sono morti”.
‘La nostra Siria grande come il mondo’ è un’alternanza di voci, quella di Mohamed e quella di Shady Hamadi, due storie diverse legate dalla Siria: per il primo – che per molto tempo ha nascosto al figlio cosa aveva subito nelle carceri siriane – luogo dell’infanzia e della giovinezza da cui fuggire, per il secondo – nato a Milano – luogo della scoperta e della memoria a cui ‘tornare’.”.
Siria, dieci anni dopo.