Ora i media mainstream scoprono il Mozambico. E versano lacrime di coccodrillo. E fanno finta di strapparsi le vesti per quei poveri bambini decapitati dai tagliagola dell’Isis. E si chiedono come è potuto accadere. E chiedono lumi a tuttologi che in Africa non hanno mai messo piede. Una parola: vergogna.
La storia
Ragazzini di 11-12 anni, praticamente dei bambini, eppure c’è chi taglia loro la testa: è il più recente orrore del conflitto terroristico di matrice jihadista, già ampiamente insanguinato da decapitazioni, che funesta la più settentrionale provincia del Mozambico. A denunciarlo è stata ieri Save the Children, i cui operatori hanno raccolto raccapriccianti testimonianze di madri e familiari delle piccole vittime di Cabo Delgado. Nella provincia mozambicana “sono stati decapitati bambini anche di soli 11 anni”, denuncia l’organizzazione internazionale che da oltre un secolo lotta per salvare i piccoli a rischio. Una madre di 28 anni, una delle centinaia di migliaia di sfollati creati da oltre tre anni di attacchi di una formazione ispirata dall’Isis e di brutali repressioni perpetrate da mercenari, ha raccontato la decapitazione del figlio di 12 anni: “Quella notte il nostro villaggio è stato attaccato e le case sono state bruciate. Quando tutto è iniziato, ero a casa con i miei quattro figli. Abbiamo cercato di scappare nel bosco, ma hanno preso mio figlio maggiore e lo hanno decapitato. Non abbiamo potuto fare nulla perché saremmo stati uccisi anche noi”. Nella provincia dell’ex colonia portoghese nell’Africa orientale, dall’ottobre 2017 al mese scorso sono stati contati oltre 800 attacchi con più di 2.600 morti, di cui la metà civili, con un forte aumento negli ultimi 12 mesi. Un connotato delle violenze sono le decapitazioni, registrate a centinaia: già nel novembre scorso i media avevano riportato informazioni su una decapitazione di massa di oltre 50 persone in un campo di calcio. Il fenomeno è comunemente considerato parte dell’espansione dell’Isis in Africa, visto che i terroristi del nord-est del Mozambico hanno annunciato un’alleanza con lo Stato islamico nel giugno del 2019, anche se non è chiaro quanto sia stretta. Pur senza legami con gli omonimi somali, il gruppo di jihadisti mozambicani formatosi nel 2015 è noto come Al-Shabaab. L’obiettivo che viene loro attribuito è quello di imporre nella provincia a maggioranza musulmana una versione integralista della legge islamica, la sharia. I loro moventi però sarebbero anche rivendicazioni locali in un’area di profonda povertà ed endemica corruzione sebbene sia fra le più ricche di gas al mondo.
Mozambico, la doppia piaga.
Scrive Alberto Galvi in dettagliato report su notiziegeopolitiche.net: “L’insurrezione jihadista iniziata nel 2017 nella provincia di Cabo Delgado ha innescato un effetto domino che ha rovesciato istituzioni fragili e poi ha insanguinato le province vicine di Niassa e Nampula. Inoltre le armi e le munizioni ribate los corso anno dalle basi dell’esercito hanno determinato una magigore capacità offensiva degli insorti.
Le Nazioni Unite stimano che 1,3 milioni di persone necessitano urgentemente di assistenza umanitaria nell’area. Il colera è in aumento e la violenza ha distrutto il 36 percento delle strutture sanitarie della zona.
Quasi 950mila persone stanno affrontando una grave crisi umanitaria. Nel 2020 quasi 580mila persone sono state costrette a fuggire dalle proprie case a causa della violenza jihadista. A sua volta la risposta del governo del Mozambico agli attacchi di Ansar al-Sunna ha provocato la morte di civili e danni alle proprietà.
La violenza ha distrutto i mezzi di sussistenza, sconvolto i mercati e fatto aumentare i prezzi dei beni essenziali. Inoltre strade e rotte marittime meglio pattugliate hanno contribuito a comprimere le linee di approvvigionamento degli insorti.
E’ possibile che i ribelli perderanno terreno, ma è anche possibile che cercheranno di estendere il loro raggio d’azione in un’altra provincia. Fonti militari hanno aggiunto che diversi gruppi si erano ritirati dai villaggi e dalla boscaglia circostante, dove la ricerca di cibo è difficile. Nel frattempo l’esercito del Mozambico è intervenuto, ma questo conflitto richiederà tempo per risolversi. Il mese scorso le truppe governative hanno lanciato una serie di attacchi aerei sul distretto di Palma, l’hub terrestre del progetto del gas dove sarebbero stati uccisi diversi jihadisti. Per i prossimi due decenni le aziende occidentali e asiatiche stanno prendendo in considerazione la possibilità di effettuare investimenti per oltre 100 miliardi di dollari per sviluppare progetti di gas che potrebbero produrre 50 milioni di tonnellate all’anno. La compagnia petrolifera francese Total sta portando avanti il suo progetto mega-gas a Cabo Delgado. Questa prospettiva però è minacciata dalla violenza jihadista, mentre il governo del Mozambico lotta per attuare la sua strategia di sicurezza. Inoltre la corruzione e la concussione hanno fatto affondare le finanze del governo mozambicano, lasciandolo con poco da spendere in progetti di sviluppo e infrastrutture”.
Il Mozambico è la nona nazione più povera del mondo. Quasi la metà dei 29 milioni di abitanti di questa nazione africana vive in povertà assoluta. La regione settentrionale di Cabo Delgado è poi la più povera del Mozambico, nonostante vi siano enormi risorse minerarie. Miseria, corruzione, instabilità cronica, assenza di un governo capace di garantire la seppur minima sicurezza. Ingredienti esplosivi, che rendono certe zone dell’Africa un terreno fertile per l’avanzata dei gruppi terroristici.
Radiografia dell’arcipelago jihadista
A fornirla, è un documentato report di Roberto Colella su ilfattoquotidiano.it: “In Africa restano saldi la Jamaat Nusrat al-Islam wal-Muslimin (Jnim) e soprattutto Al Shabaab. La prima incentrata sul Mali, che opera anche in Burkina Faso e Niger, istituita nel marzo 2017. Si tratta di una federazione di gruppi jihadisti filo-qaedisti guidata dal carismatico Iyad ag Ghaly. La seconda, Al-Shabaab – un affiliato di al-Qaeda in Somalia, specializzato soprattutto in attentati e rapimenti”. Quanto allo Stato islamico, annota Colella, 2 seppur privo di un leader carismatico, gode in Africa di una organizzazione meticolosa. Nel marzo 2015, il leader di Boko Haram, Abubakar Shekau, aveva prestato giuramento ad Abu Bakr al-Baghdadi e allo Stato Islamico. Da allora il nome Boko Haram scomparve, cedendo il posto all’Iswap oggi definito un protoesercito. Shekau fu poi rimpiazzato dalla testa dell’Iswap che scommise le sue carte su Abu Musab al-Barnawi, figlio del fondatore di Boko Haram, Mohammad Yusuf. Shekau continua oggi ad operare vicino alla foresta di Sambisa con una fazione di 1.500 combattenti, sotto il nome internazionale di Boko Haram o con quello locale di Jama’at Ahl as-Sunnah lid-Da’wah wa’l-Jihad (Jas), ma è spesso citato come seconda branca dell’Iswap, avendo rigettato il decreto dell’Isis.
Il gruppo salafita-jihadista affiliato allo Stato islamico, Wilayat Sinai (Ws) è invece la principale minaccia alla sicurezza nazionale egiziana. Dal 2013, il gruppo ha compiuto quasi 2000 attentati, causando oltre un migliaio di vittime solo tra i militari. Infatti, il 1° maggio 2020 un attacco contro un convoglio dell’esercito avvenuto a Bir al-Abd, nel Sinai del Nord, ha ucciso 14 soldati. Varie fonti stimano gli affiliati africani all’organizzazione intorno ai 6.000 uomini.
C’è poi l’Islamic State in Greater Sahara (Isgs) nato a metà del 2015, quando Adnan Abu Walid al-Sahraoui, dirigente degli Almoravidi qaedisti, ha prestato giuramento di fedeltà al (defunto) califfo Al Baghdadi Un atto sconfessato e rigettato dal capo degli Almoravidi che ha defenestrato Al-Sahraoui e mantenuto la linea qaedista. A quel punto Al-Sahraoui e altri almoravidi filo-Daesh hanno abiurato per formare lo Stato Islamico in Mali, poi denominato Isgs.
Nell’ottobre 2017 l’Isis ha cominciato a integrare le azioni dell’Isgs nella sua propaganda. La forza dello Stato islamico nel Grande Sahara è di 425 jihadisti. Il tutto sotto la regia dell’Isis che rilancia l’idea del califfato in salsa africana”.
Il Centro per l’Integrità Pubblica (Cip), un’organizzazione non governativa (Ong) del Mozambico, ha affermato ieri che l’affidamento diretto di appalti di lavori pubblici e l’acquisizione di beni e servizi da parte dello Stato presenta un rischio di corruzione e abuso di fondi. “Con l’affidamento diretto, nell’attuale contesto [pandemico], vi è il serio rischio di fatturazione eccessiva, di conflitti di interesse e di ingerenze negli appalti pubblici”, si legge in una dichiarazione del Cip. “La corruzione negli appalti nei settori sociali come la salute può indebolire gravemente la capacità del governo di rispondere al Covid-19 nel paese e mettere a rischio vite umane, in particolare donne e bambini, violando così i diritti umani”, aggiunge la dichiarazione. I dati degli audit effettuati dal Ministero della Salute nel 2017 indicano che i prodotti acquistati tramite affidamenti diretti dal settore sono fino al 90% più costosi rispetto al prezzo di riferimento nel mercato internazionale, ha affermato l’Ong.
Quell’invocazione profetica
Un passo indietro nel tempo. Sei settembre 2019.“ Non si può costruire il futuro su quella che viene definita “l’‘equità’ della violenza’”, sull’“occhio per occhio, dente per dente”, su vendetta, odio e corruzione: la via è quella dell’amore “senza aspettare nulla in cambio”. Parole di papa Francesco, celebrando in portoghese la Santa Messa “per il progresso dei popoli’ nello Stadio Zimpeto, a Maputo, ultimo atto del suo viaggio in Mozambico prima del trasferimento in Madagascar. Ad attenderlo oltre 60mila persone. Nessuna famiglia, nessun gruppo di vicini, nessuna etnia e tanto meno un Paese ha futuro, se il motore che li unisce, li raduna e copre le differenze è la vendetta e l’odio. Non possiamo metterci d’accordo e unirci per vendicarci, per fare a chi è stato violento la stessa cosa che lui ha fatto a noi, per pianificare occasioni di ritorsione sotto forme apparentemente legali. Le armi e la repressione violenta, invece di apportare soluzioni, creano nuovi e peggiori conflitti. L’“equità” della violenza è sempre una spirale senza uscita; e il suo costo, molto elevato. C’è un’altra strada possibile, perché è fondamentale non dimenticare che i nostri popoli hanno diritto alla pace. Voi avete diritto alla pace”, dice Bergoglio. Per poi aggiungere: “
Molti di voi possono ancora raccontare in prima persona storie di violenza, odio e discordie; alcuni, nella loro stessa carne; altri, di qualche conoscente che non c’è più; e altri ancora per paura che le ferite del passato si ripetano e cerchino di cancellare il cammino di pace già percorso, come a Cabo Delgado”
Il riferimento è alla provincia settentrionale del Mozambico, ricca di risorse naturali, dove da tempo sono in corso attacchi e violenze che generano instabilità.
“È difficile parlare di riconciliazione quando sono ancora aperte le ferite procurate da tanti anni di discordia, oppure invitare a fare un passo di perdono che non significhi ignorare la sofferenza né chiedere che si cancelli la memoria o gli ideali. Nonostante ciò, Gesù Cristo invita ad amare e a fare il bene. E questo è molto di più che ignorare la persona che ci ha danneggiato o fare in modo che le nostre vite non si incrocino: è un mandato che mira a una benevolenza attiva, disinteressata e straordinaria verso coloro che ci hanno ferito”, esorta il pontefice.
Il Mozambico possiede un territorio pieno di ricchezze naturali e culturali, ma paradossalmente – constata Francesco – con una “enorme quantità di popolazione” al di sotto del livello di povertà.
E a volte sembra che coloro che si avvicinano con il presunto desiderio di aiutare, abbiano altri interessi. Ed è triste quando ciò accade tra fratelli della stessa terra, che si lasciano corrompere; è molto pericoloso accettare che questo sia il prezzo che dobbiamo pagare per gli aiuti esterni”.
Interessi declinabili così: rapina delle ricchezze naturali, sfruttamento inumano della forza lavoro, distruzione dell’ambiente, sostegno a politici corrotti, finanziamenti, in denaro e armi, a signori della guerra spacciati per uomini di governo. C’erano anche questi predatori internazionali di ogni latitudine e coloritura politica – russi, cinesi, europei, americani… – a versare lacrime di coccodrillo per quei 45 bambini trucidati. Così li hanno uccisi una seconda volta.