In Mozambico la Jihad minaccia gli interessi italiani
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In Mozambico la Jihad minaccia gli interessi italiani

Nella provincia di Cabo Delgado si sta aggravando sempre di più. Sono centinaia i morti ed oltre 200.000 gli sfollati in fuga dalle violenze degli jihadisti di Ansar al-Sunna.

Isis in Africa
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

12 Luglio 2021 - 16.57


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Mozambico, l’Isis all’attacco degli interessi italiani.

A darne conto è Pietro Batacchi, direttore di Rid (Rivista italiana difesa). “La situazione della sicurezza nella provincia settentrionale di Cabo Delgado, in Mozambico, si sta aggravando sempre di più. Sono centinaia i morti ed oltre 200.000 gli sfollati in fuga dalle violenze degli jihadisti di Ansar al-Sunna. Il gruppo, affiliato allo Stato Islamico, ha legami con la branche/provincie dell’IS dell’Africa Centrale e dell’Africa Orientale ed in più occasioni è stato capace di occupare città e villaggi della zona, compresi edifici governativi ed amministrativi. La situazione è resa ancor più grave dalle divisioni tra Polizia ed Esercito mozambicani tanto è vero che l’assalto da parte di Ansar al-Sunna all’importante città portuale di Mocimboa da Praia del 27-29 giugno è stato respinto solo grazie all’intervento di 3 elicotteri della società militare privata sudafricana Dyck Advisory Group. La provincia di Cabo Delgado è strategica perché ricca di risorse gasifere di recente sviluppo, con al centro il grande bacino offshore di Rovuma. Eni è operatore al 34% del blocco Coral South, appartenente al citato bacino, ed è coinvolta in maniera rilevante nel piano di sviluppo del complesso Mamba, facente sempre parte del medesimo bacino. Insomma, gli interessi dell’Italia nell’area sono significativi. Per questa ragione, il nostro Paese dovrebbe prendere seriamente in considerazione l’ipotesi di rafforzare la propria presenza militare nell’area valutando l’opzione del dispiegamento di una task force navale in funzione di deterrenza, pronta ad intervenire all’occorrenza in caso di escalation, e/o di una missione bilaterale di assistenza alle forze di sicurezza locali sul modello di quelle presenti in Libano, Somalia, ecc. Il tutto, ovviamente, in accordo con il Governo di Maputo. Ma l’Italia potrebbe anche favorire l’estensione del mandato dell’Operazione dell’UE Atalanta – al momento limitato al contrasto della pirateria nelle acque del Corno d’Africa – o l’attivazione di una nuova missione europea ad hoc, visto che nell’area insistono importanti interessi pure di altri Paesi europei, a cominciare dalla Francia.

Testimonianze dall’inferno

In Mozambico “il panico è diffuso” fra la popolazione e vi è timore di nuovi attacchi da parte di gruppi terroristici, anche a Pemba, capoluogo della provincia mozambicana di Cabo Delgado. Lo ha riferito ad Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) don Kwiriwi Fonseca, componente del team della Comunicazione della diocesi di Pemba.
“Ogni volta che sente uno sparo, o un qualsiasi scambio di colpi d’arma da fuoco”, anche se provenienti “dai campi di addestramento dell’esercito, la gente entra immediatamente nel panico e corre fuori dalle case”, ha raccontato il sacerdote: “Per questo il governo, le Ong e la Chiesa dovranno parlare intensamente e costantemente di pace e sicurezza, perché c’è veramente molta paura”.
Questo, spiega Acs, è quanto si verifica anche nella stessa Pemba, la principale base delle forze di sicurezza governative dell’intera regione. Il terrore descritto da don Fonseca trasforma ogni movimento inusuale, ogni suono più forte del solito, ogni colpo isolato in un attacco imminente. Se questo accade quando si ha il solo timore di un attacco è facile comprendere cosa si verifica quando l’aggressione è effettiva, come è accaduto lo scorso 22 aprile. “Fin dal primo attacco – il più violento, il 24 marzo – le notizie sono giunte in maniera frammentaria, ma il 22 aprile quattro persone sono state uccise e altre sequestrate”, ha spiegato il sacerdote. A quasi un mese dall’attacco verificatosi a Palma, nell’estremo nord, la città al centro del megaprogetto di sfruttamento del gas naturale offshore, la medesima città è stata ancora una volta teatro di una grave aggressione. “Il governo non si è ancora manifestato, anche se diverse persone hanno confermato che, sì, ci sono stati degli attacchi”, ha aggiunto don Fonseca.
La guerra non dichiarata da parte di gruppi armati affiliati all’Isis ha sconvolto quest’area del nord Mozambico. Il conflitto, dall’ottobre 2017, ha causato circa 2.500 vittime e oltre 750.000 sfollati. La Chiesa è impegnata nel tentativo di aiutare la popolazione costretta alla fuga e ora totalmente dipendente dalla solidarietà e dal sostegno altrui. Don Fonseca, nel descrivere gli attuali bisogni della popolazione, è lapidario: “Qui manca tutto”.

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Mozambico: cos’è Aswj, affiliato all’Isis

Il gruppo degli Aswj è l’organizzazione terroristica più attiva e forte in zona. Sono definiti anche gli Shabaab del Mozambico, benché siano legati all’Isis e non al gruppo degli Shabaab, tristemente noti per le azioni in Somalia e Kenya, affiliati ad al- Qaeda. Aswj è ritenuto responsabile di oltre duemila persone dal 2017, tra forze di sicurezza e civili. Il leader è Abu Yasir Hassan, noto anche con il nome. Di Abu Qasim, di cui si sa poco o nulla, come spesso avviene per i capi di organizzazioni terroristiche: il suo nome è stato inserito tra quelli dei terroristi più pericolosi dall’amministrazione Biden in un atto firmato dal segretario do Stato Blinken. L’intelligence statunitense sostiene che dal 2018 al Sunnah wa-Jammà abbia giurato fedeltà all’Isis, ma solo nel 2019 ci sarebbe stata l’affiliazione ufficiale. Le offensive, iniziate appunto già nel 2017, si sono intensificate di recente. Ad agosto 2020 è stato attaccata la città di Mocimboia di Praia, sulla costa. I jihadisti si sono organizzati via mare e via terra per colpire le forze militari del Paese. 

“Secondo le stime – rimarca un documentato report dell’Ispi  il Mozambico ‘siede’ su un giacimento di gas naturale che, una volta sfruttato, ne farebbe il secondo produttore mondiale dopo il Qatar. Al progetto, che ha comportato un investimento enorme di risorse, partecipano altre aziende oltre Total, tra cui l’italiana Eni e l’americana ExxonMobil. Un affare da 150 miliardi di euro in uno dei paesi più poveri dell’Africa orientale e dell’intero continente. Dopo l’attacco di Palma  però, Total ha nuovamente sospeso i lavori, e ha annunciato che ridurrà al minimo il personale, aumentando le norme di sicurezza per garantirne l’incolumità. Il che lascia presagire nuove e più stringenti misure di contenimento per la popolazione e l’arrivo di altri contractor stranieri che, come Dyck Advisory Group (Dag) e Paramount Group, sarebbero peraltro già presenti nella zona.  Con il plauso delle autorità di Maputo e il sostegno delle società estrattive, il mese scorso il dipartimento di Stato americano ha inserito tra i destinatari delle sanzioni statunitensi il leader di al-Shabaab Abu Yasir Hassan. E il Portogallo – paese che colonizzò l’attuale Mozambico – ha deciso di inviare 60 unità militari nel paese   per sostenere il governo centrale. Ma anziché sradicare le cause all’origine del malcontento – che alimenta l’instabilità nel nord del Mozambico – tali scelte rischiano di militarizzare ulteriormente il conflitto. Gli ingredienti ci sono tutti: ricchezze naturali, instabilità, corruzione e interventi militari esterni. Come già provato altrove, è la ricetta di un disastro perfetto”. 

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La città di Palma – spiega il report –  si trova a soli 2 km dal confine dell’area. Cabo Delgado, per decenni una delle zone più povere e sottosviluppate del Mozambico, è improvvisamente divenuto l’Eldorado del paese, dopo la scoperta di giacimenti di gas naturale e pietre preziose nel 2010. Una ricchezza, quella del sottosuolo, che però ha portato in dote alla popolazione solo altra miseria, sfollamenti e violenze. Negli ultimi dieci anni, il governo ha rimosso con la forza intere comunità da terreni di proprietà statale, che ha poi dato in concessione a società private per la ricerca di rubini, pietre preziose e gas naturale. Nella totale assenza di servizi e sostegno alle persone da parte del governo centrale, quindi, le persone hanno perso la terra su cui facevano affidamento per avere cibo, riparo e un reddito. “Non sono solo disoccupati, sono anche non occupabili – spiega al Guardian David Matsinhe, attivista per i diritti umani –. Si lamentano, dicono che sono solo gli stranieri che traggono vantaggio dalla ricchezza della terra”. Secondo l’attivista, queste lamentele hanno alimentato il conflitto ‘più di qualsiasi influenza da parte di gruppi terroristici internazionali. Quando si parla dei predicatori radicali che vengono per reclutare i giovani, ci si dimentica che il governo ha fatto per loro circa l’80% del lavoro. E i predicatori vengono solo a raccogliere i frutti’”.

Orrore senza fine

Bambini decapitati nella provincia settentrionale di Cabo Delgado, in Mozambico. È la denuncia di Save the Children che, come riporta la Bbc, ha raccolto le testimonianze di molte madri che hanno dovuto assistere alla decapitazione dei propri figli Una madre raccontato di aver dovuto assistere impotente mentre suo figlio di 12 anni veniva decapitato. “Quella notte il nostro villaggio è stato attaccato e le case sono state bruciate”, ha detto. “Quando tutto è iniziato, ero a casa con i miei quattro figli. Abbiamo cercato di scappare nel bosco ma hanno preso mio figlio maggiore e lo hanno decapitato. Non potevamo fare nulla perché saremmo stati uccisi anche noi”. Più di 2.500 persone sono state uccise e 700mila sono fuggite dalle loro case dall’inizio dell’insurrezione islamista nel 2017. Nel suo rapporto, Save the Children ha affermato di aver parlato con famiglie di sfollati che hanno riportato scene raccapriccianti nella provincia ricca di gas. 

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I numeri dell’avanzata jihadista in Mozambico continuano a crescere in maniera preoccupante. Secondo il rapporto sono oltre 2.500 le persone uccise dagli uomini dell’ex Califfo Abu Bakr al-Baghdadi, mentre altre 700mila sono state costrette a fuggire dalle loro case dal 2017, quando l’insurrezione dei gruppi estremisti ha avuto un’accelerata. “Queste storie ci hanno sconvolto”, ha raccontato alla Bbc il direttore di Save the Children in Mozambico, Chance Briggs. “Questa violenza deve finire, le famiglie di rifugiati devono essere aiutate”, ha detto.

Se notizie su esecuzioni sommarie di bambini non erano ancora arrivate dal Paese africano, che da anni ormai ha conosciuto un’avanzata dei gruppi islamisti, non è invece la prima volta che questi si rendono responsabili di decapitazioni nei confronti della popolazione. Lo scorso novembre, media locali riportarono la notizia di oltre 50 persone decapitate su un campo da calcio sempre a Cabo Delgado. Ad aprile dell’anno scorso, decine di civili furono uccisi in un attacco contro un villaggio. I gruppi in difesa dei diritti umani hanno accusato anche le forze di sicurezza di abusi, torture e omicidi nel corso di operazioni contro i jihadisti.

La storia di Sofia

A raccontarla è Alessandra Muglia, in un bel reportage sul Corriere della Sera: “«C’erano spari e sangue ovunque. Siamo corsi via per non morire. Sono scappata senza portare via nulla, con i miei figli per mano e uno ancora in pancia. Vorrei tornare a casa, ma non si può». Sofia B – scrive Muglia –  è tra le 80mila persone messe in fuga negli ultimi mesi dai ribelli jihadisti che tengono in scacco la regione più a Nord del Mozambico. Ma a cento giorni dall’attacco di Palma, quello con l’ombra dell’Isis ad accendere i riflettori del mondo su questo Paese, non solo gli sfollati non possono rientrare nelle loro case ma ne continuano ad arrivare a Pemba, capoluogo della regione di Capo Delgado che in poche settimane ha raddoppiato i suoi abitanti. Palma è tornata, dice il governo, sotto controllo, ma la situazione resta instabile, con ripetute sparatorie e case bruciate: quanto basta per indurre ancora la gente a mettere insieme poche cose e partire. 

Sofia se n’è andata subito, dopo l’assedio iniziato il 24 marzo, il primo qui a prendere di mira un’intera città e prontamente rivendicato dall’Isis. «Terrorizzati ci siamo incamminati, e giorni dopo siamo arrivati a Quitunda». In questa località rifugio di sfollati Sofia, stremata con il suo pancione, ha dovuto lasciare i suoi figli più grandi«Ero incinta e mi è stato offerto un passaggio aereo con mio marito e i miei 4 figli più piccoli fino a Pemba». In questa città si concentra gran parte dell’aiuto umanitario. «Mi hanno supportato ong come Avsi ,oggi dormo in un luogo sicuro, ho acqua e cibo» dice. E qui ha partorito la sua bimba”.

Ma non tutte le storie, come quella di Sofia B., sono a lieto fine. In Mozambico la quotidianità di tanta gente è fatta di sofferenza, paura e fuga disperata alla ricerca di un rifugio sicuro. Una fuga che spesso finisce tragicamente.

 

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