Alcune brevi considerazioni sulla disfatta in Afghanistan. Perché l’unica cosa da evitare oggi è riaccendere le tifoserie davanti a una tragedia con cui dovremo fare i conti per anni.
1. Il destino purtroppo era già scritto. I talebani non sono mai scomparsi dal panorama politico afghano. Nel corso degli anni avevano anche provato a istituzionalizzarsi, ma quando un fenomeno attraversa la società in tutte le sue pieghe non scompare in un batter d’occhio. Sono un pezzo decisivo di una guerra patriottica contro l’invasore che non abbiamo mai voluto vedere e accettare. Ieri i sovietici, oggi gli occidentali. Meravigliarsi è davvero ridicolo oltre che ipocrita.
2. I talebani non sono quelli di venti anni fa. Sono meno movimento e più partito. Hanno un disegno politico folle, ma puntano a stabilire relazioni internazionali durature. Saranno feroci, ma gradualisti. Intanto accederanno al tesoro lasciato dalla NATO nelle casse del Governo Ghani e si sono presi le armi con cui avevamo equipaggiato esercito e polizia. Ma soprattutto non guardano più solo ai paesi del Golfo come alleati naturali. Sarebbe utile ricordare a Renzi e i suoi corifei – che ieri rilascia un’intervista a Repubblica come fosse un passante – che gli unici stati a riconoscere il regime talebano fino al 2001, oltre al Pakistan, erano l’Arabia Saudita e gli Emirati. Ovvero quelli che lo hanno ingaggiato per laute consulenze. Per cui sarebbe da evitare il piagnisteo sul pericolo integralista. Dovrebbe prendersela innanzitutto con alcuni dei suoi datori di lavoro.
3. I talebani non vincono solo col terrore. C’è anche consenso diffuso ed entrano come la lama nel burro nei settori più poveri della popolazione. Anche perché i sistemi di corruzione in quel paese sono enormi e capillari e i signori della guerra sono parte di un élite avida di potere e di soldi. Per ampi strati della popolazione sono visti come dei veri e propri estorsori. Le immagini della reggia del generale uzbeko Dostum, fatte circolare in rete dopo la vittoria talebana a Mazar El Sharif, gridano vendetta perché sono una dimostrazione di sfarzo imbarazzante in un contesto sociale poverissimo. E spiegano in gran parte perché hanno ripreso terreno i fondamentalisti schiacciando ancora una volta l’alleanza del Nord composta dai signori della guerra filo occidentali. Anche e soprattutto contro l’ostentazione del privilegio.
4. Ora tutto si concentra sulla critica a Biden. Il quale per la verità – lo racconta molto bene Obama nella sua autobiografia “Una terra promessa” – era per il ritiro dall’Afghanistan fin dal 2009. Da vicepresidente criticò i vertici dell’esercito americano che chiedevano il cosiddetto “surge” per implementare le truppe di stanza a Kabul e provare a piegare definitivamente la resistenza. Perse perché alla fine Obama accettò il diktat dei militari, convinto che successivamente avrebbe potuto accelerare il ritiro. Non accadde ed è rimasto nel pantano.
5. E’ stato Trump invece a programmare la exit strategy. E non da oggi. Essendo il principale fautore di un graduale disimpegno americano dai teatri di conflitto del medio e vicino oriente. D’altra parte, è arduo sostenere che dopo venti anni non avesse qualche fondatezza l’ipotesi del ritiro delle truppe. E’ stata nei fatti la guerra più lunga della storia contemporanea. Gli USA hanno pagato un prezzo in termini economici e di vite umane enorme. E chi doveva fare i soldi su questa guerra ne ha fatti già abbastanza. Meglio diversificare gli investimenti senza pagare ancora una volta un prezzo politico troppo grande. Aggiungo che Trump con estremo realismo non ha mai escluso un’interlocuzione con i Taliban, comprendendo che fossero una realtà molto più radicata di quello che gli raccontavano i suoi analisti o i commentatori della domenica.
6. Diffiderei di chi ora dice che ci sarebbe stata una qualche forma di resistenza da parte degli inglesi, dell’Ue e persino dell’Italia davanti all’accelerazione del ritiro. Ma di che cosa parliamo? Noi abbiamo cominciato a ridurre i militari presenti a Herat e Kabul già durante i governi Renzi e Gentiloni. Roberta Pinotti al Ministero della Difesa. Ne avevamo ormai un migliaio scarso sul campo. La nostra missione era “no combat” almeno dal 2015, con l’avvento di Resolute support. Ce lo ricordano benissimo i generali di allora nelle varie interviste che hanno rilasciato. Non potevamo sparare nemmeno un colpo se non attaccati direttamente. Queste le regole di ingaggio stabilite con gli alleati da parte italiana e votate dal Parlamento. Rimanevamo a fare cosa? Avremmo fatto la fine dell’esercito afghano che abbiamo contribuito ad addestrare. Con risultati che mi sembrano sotto gli occhi di tutti. Aggiungo che l’Italia sta provando a mettere un piede in Africa subsahariana, a partire da un ruolo sempre maggiore nel Sahel, in particolare in Mali e nel Niger. Anche militare, dopo anni di monopolio incontrastato delle scelte francesi in quel territorio. Abbiamo addirittura ottenuto l’inviato speciale dell’Ue nel Sahel che è un’italiana, Emanuela del Re. Dunque mi pare che abbiamo già deciso quali sono i nostri interessi strategici. Tra questi non mi pare ci sia l’Afghanistan.
7. Vedo che ora i nostalgici della guerra in Afghanistan ( quasi tutti presenti nel cosiddetto fronte liberale che chissà perché incrocia anche quello sovranista ) vaticinano possibili rischi di regali alla Cina e ad altri competitor. Panebianco è la testa d’ariete di una linea che sta facendo proseliti. Non so se la Cina abbia davvero interesse a mettere tutti e due piedi in Afghanistan, per quanto lasci intatta la sua rappresentanza diplomatica lì. Certo, la via della seta incrocia Kabul, come è noto dalla notte dei secoli, ma avere un emirato islamico a due passi dalla regione dello Xinjiang non credo faccia stappare bottiglie di champagne a Pechino. Gli uiguri sono stati indubbiamente ridimensionati anche attraverso una vera e propria politica di sostituzione etnica, ma i meccanismi emulativi possono emergere come fiammate ed avere una funzione destabilizzante. Vedremo l’evoluzione. Più interessante sarà guardare cosa faranno Turchia, Iran e Russia. La Turchia e l’Iran in questi ultimi due anni hanno avuto interessi convergenti su molteplici partite geopolitiche in un inedito asse tra fratellanza musulmana e universo sciita, come scrive Gilles Kepel. Uno schiaffo all’occidente non può che far aumentare il loro peso simbolico e politico nel mondo islamico sempre più privo di riferimenti stabili. La Russia è l’altra grande potenza ad aver annunciato la non evacuazione dell’ambasciata. E’ un fatto politico rilevante, benché tenderei ad escludere avventure da parte di Mosca sul terreno visti i precedenti drammatici.
8. Bisognerebbe avere il coraggio di smascherare la cattiva fede di chi oggi ci sta spiegando che le donne lasciate sole impongono all’occidente di riflettere sulla propria impotenza e a delineare un altro epilogo. Alludono nei fatti a un’altra guerra. Forse un colpo di caldo ferragostano. Fa sorridere che siano gli stessi che per mesi – soprattutto gli ultimi mesi – hanno chiesto urbi et orbi giuramenti di fedeltà al neoatlantismo – parola che non significa praticamente nulla e che escludo sia traducibile nel resto dell’Europa – perché l’Italia di Conte era praticamente fuori asse rispetto alle naturali e storiche alleanze. In realtà, il tema su cui interrogarsi è proprio la funzione della NATO. Rischia di diventare desueta persino per gli USA, che ci ripetono da anni che sono stufi di pagare al posto nostro, ma noi non riusciamo a immaginarne una nuova vocazione, un nuovo ruolo, una nuova missione. Ci vorrebbe davvero un’Europa politica che scegliesse la strada di una strategia di difesa autonoma e aumentasse il suo peso politico nella NATO. Questo avrebbe ovviamente una conseguenza: che il 2 per cento del Pil vada a spese militari dirette al rafforzamento dell’alleanza atlantica. Cosa che nessuno ha mai fatto, a partire da Francia e Germania. Qualcuno è in grado di sostenere – a maggior ragione in tempo di pandemia – che questa strada sia percorribile con un’opinione pubblica europea che ha la testa giustamente altrove?
9. Tra qualche settimana – forse persino meno – entreremo in una fase calda sul fronte migratorio. Non solo la Libia – che se non trova un accordo sulla celebrazione delle elezioni presidenziali e sul metodo di voto può esplodere definitivamente – ma anche e soprattutto la Tunisia, che diventa sempre più la fotocopia di uno stato fallito. Si riaprirà poi in maniera drammatica la rotta balcanica. Perché i profughi afghani busseranno ai paesi limitrofi – Pakistan e non solo – ma poi chiederanno asilo anche qui. E che facciamo? Ci faremo trovare pronti o alzeremo muri? Dopo i guai che abbiamo combinato? Le lacrime per le donne di Kabul valgono solo a debita distanza? Come dire, lontano dagli occhi, lontano dal cuore? Sarà urgente avere una proposta per corridoi umanitari stabili e per permessi di asilo politico. La forza delle democrazie si misura anche dal grado di capacità di riparare ai propri errori e alle illusioni che ha generato. L’Unione europea dovrebbe convocare una conferenza sugli effetti di lungo periodo della Guerra in Afghanistan e delineare una strategia duratura. Su questo ci giochiamo la nostra residua credibilità. Non solo politica, ma anche morale.