Mai previsione fu più sbagliata: il fallimento su tutta la linea delle truppe occidentali può essere sintetizzata con l’assoluta certezza di un’improbabile caduta di Kabul quest’anno da parte degli 007.
La gestione degli attacchi talebani, poi, è stato il colpo di grazia.
Adesso c’è chi ne dovrà pagare le conseguenze: il capo del Foreign Office, Dominic Raab, chiamato oggi a spiegarsi (e a giustificarsi) in un’audizione straordinaria dinanzi ai deputati della commissione Esteri della Camera dei Comuni, il ministro di Boris Johnson non ha negato la legittimità di talune “critiche” rivolte agli Usa – o al Regno Unito – sulla gestione ingloriosa del ritiro da Kabul.
Ma si è rifiutato di fare da capro espiatorio in prima persona, o a nome della sola compagine Tory di cui fa parte, di fronte a una vicenda che il presidente stesso della commissione, Tom Tugendhat, suo compagno di partito, ex ufficiale e veterano della trincea afghana, non ha esitato a bollare come “il più grande singolo disastro di politica estera dalla crisi di Suez”: figuraccia che nel lontano 1956 segnò di fatto la fine di ogni residua pretesa coloniale esplicita per Francia e Gran Bretagna.
Un disastro rispetto al quale Raab ha chiamato in causa se non altro come corresponsabili gli alleati – da Washington ai partner europei – nonché i rapporti e le previsioni improntate a evidente sottovalutazione dei talebani (o sopravvalutazione delle forze lasciate al potere a Kabul) partoriti nelle varie capitali da agenzie di controspionaggio e generali stellati dopo ben 20 anni di presenza nel Paese asiatico.
“La valutazione cruciale sulla cui base abbiamo operato, sostenuta certamente dal Joint Intelligence Committee e dai nostri militari, era che il ritiro a fine agosto avrebbe provocato un deterioramento graduale della situazione, ma che la caduta di Kabul entro il 2021 andasse considerata improbabile”, ha notato; convinzione, ha poi rimarcato, “largamente condivisa dai partner della Nato”.
Una scommessa rivelatasi clamorosamente errata alla prova dei fatti, come ha dimostrato l’affannosa precipitazione delle successive operazioni d’evacuazione di stranieri ed ex collaboratori locali considerati a più alto rischio di rappresaglia dopo la presa di Kabul e di quasi tutto il territorio nazionale completata in effetti dai cosiddetti studenti coranici nel giro di pochi giorni. Senza resistenza e senza colpo ferire.
Al riguardo, il ministro degli Esteri britannico ha provato comunque a difendere “lo sforzo” condotto dal suo governo come da altri per portar fuori dal Paese 15.000 persone in due settimane (su 120.000 circa soccorse dall’intera coalizione); 17.000 includendo i trasferimenti anticipati avviati da Londra “da aprile”.
Ma – preso di mira dalle accuse d’inazione di alcuni deputati, da qualche bacchettata personale rivolta a lui stesso e a Johnson per essere andati inizialmente in vacanza a metà agosto (mentre ai militari di prima linea e licenze venivano revocate già dal 23 luglio) e da qualche singola richiesta di dimissioni dell’opposizione laburista – non è stato tuttavia in grado d’indicare una cifra precisa degli afghani amici rimasti per il momento indietro.
Limitandosi ad annunciare un suo tour diplomatico d’urgenza nei Paesi della regione per cercare di strappare all’undicesima ora garanzie sul mantenimento di corridoi d’uscita per coloro che vogliono ancora fuggire dall’Afghanistan.
Oltre a un’inchiesta sulle imbarazzanti modalita’ dell’abbandono temporaneo della sede dell’ambasciata di Londra a Kabul, dove un giornalista ha denunciato d’aver trovato inopinatamente abbandonati documenti riservati: con indicazioni utili a rintracciare ex collaboratori lasciati dallo staff diplomatico alla mercé dei talebani.