Ong palestinesi fuorilegge, l'ebraismo progressista si ribella
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Ong palestinesi fuorilegge, l'ebraismo progressista si ribella

L’ebraismo democratico e progressista si ribella alla criminalizzazione di 6 Ong palestinesi da parte del governo israeliano e, in particolare, del ministro della Difesa, Benny Gantz.

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28 Ottobre 2021 - 15.12


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L’ebraismo democratico e progressista si ribella alla criminalizzazione di 6 Ong palestinesi da parte del governo israeliano e, in particolare, del ministro della Difesa, Benny Gantz.

La protesta

Di seguito la lettera che J-Link ha inviato a Gantz, di cui Globalist ha preso visione:

Gentile Ministro Benny Gantz,

J-Link, una rete internazionale di organizzazione ebraiche progressiste, si rivolse a Lei in qualità di Presidente della Knesset nel maggio 2020 al fine di manifestare la ferma opposizione ai piani di annessione di parti della Cisgiordania. Tali piani sono stati annullati. Siamo orgogliosi di avere concorso per parte nostra a tale esito. 

Analogamente, siamo ora sorpresi dal fatto che importanti organizzazioni della società civile palestinese siano dichiarate terroristiche, in assenza di un processo aperto ed equo. Ci affianchiamo alla protesta manifestata da molte Ong israeliane che condannano un tale atto in quanto ‘misura draconiana che criminalizza un importante lavoro nel campo dei diritti umani’. Una decisione del genere non distingue fra coloro che usano violenza contro lo stato e il popolo di Israele da un lato e quelle organizzazioni dall’altro che difendono i diritti umani nei territori palestinesi occupati.

Membri dello stesso governo israeliano hanno espresso sconcerto, apprensione e dubbi circa la legittimità e razionalità di una tale misura.

Il momento dell’annuncio coincide inoltre con l’aumento allarmante di violenze da parte dei coloni e dall’incapacità evidente dell’esercito israeliano di proteggere i civili palestinesi. La preoccupazione di J-Link è che tali azioni mettano in pericolo lo status internazionale di Israele e compromettano le prospettive di pace.

J-Link e le organizzazioni ebraiche progressiste che ne fanno parte Le chiedono di revocare tale decisione o di fornire una prova pubblica e credibile delle imputazioni

Il Comitato di coordinamento di J-Link

Kenneth Bob (Ameinu, USA); Giorgio Gomel (Jcall Europa, Italia); Barbara Landau (JSpaceCanada); Alon Liel (PWG, Israele); Pablo Lumerman (J-Amlat, Argentina); Gabriella Saven (JDI, Sud Africa)”.

Colonizzazione a geometria (quantitativa) variabile

Annota in proposito Jonathan Lis su Haaretz: “Il primo ministro Naftali Bennett ha pensato di fare un occhiolino alla destra israeliana e promuovere qualche costruzione simbolica negli insediamenti. Ha iniziato una mossa abbastanza limitata approvando la costruzione di migliaia di unità abitative lì, e ha mascherato questo con un gesto verso i palestinesi, includendo 1.300 permessi di costruzione, la prima volta che questo accade in un decennio. Sperava che il suo gilet protettivo dei partiti della coalizione di sinistra avrebbe incoraggiato la comunità internazionale a subire la mossa, segnalando che questa era una tassa che doveva pagare per sostenere l’ala destra della sua coalizione, non una nuova impennata nell’espansione degli insediamenti.

L’amministrazione statunitense non è rimasta a guardare e si è affrettata a emettere una dura condanna pubblica. Il segretario di Stato Antony Blinken ha parlato con il ministro della difesa Benny Gantz, avvertendo della reazione americana se questi piani fossero stati approvati. Ha anche inviato il suo portavoce Ned Price per esprimere l’obiezione degli Stati Uniti. Il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, molto stimato in Israele, ha trasmesso nei giorni scorsi un duro messaggio a Bennett. La protesta americana ha citato esplicitamente l’intenzione di costruire negli insediamenti in profondità nel territorio palestinese. Le valutazioni a Gerusalemme sono che il primo drammatico confronto tra il presidente americano Joe Biden e Bennett sia limitato, calcolato e sotto controllo. Nessuno si aspettava che una tale mossa passasse in sordina da parte degli alti esponenti democratici. Il fatto che allo stesso tempo, in modo non pianificato, sia scoppiata un’altra faida pubblica tra i due paesi sulla designazione di sei organizzazioni palestinesi per i diritti umani come organizzazioni terroristiche, ha solo aggiunto benzina sul fuoco.

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Nella sua essenza, questo è un attrito inutile che sta offuscando le relazioni tra i due stati. Ma per Bennett, la dura critica americana ha alcuni vantaggi, dandogli alcuni punti politici. Da un lato, le dichiarazioni combattive contro la costruzione degli insediamenti gonfiano il significato del limitato passo fatto da Bennett, segnalando alla destra che questa deve essere una mossa importante. Dall’altro lato, l’ufficio del primo ministro si rende conto che piani simili si riveleranno difficili da avviare in futuro, in parte per la preoccupazione dell’integrità della coalizione. Ora possono incolpare il duro presidente americano e la comunità internazionale. Lo scorso agosto, alla vigilia del suo incontro con Biden, Bennett ha rilasciato un’ampia intervista al New York Times. ‘Questo governo non annetterà [terre nei territori] né formerà uno stato palestinese, tutti lo capiscono’ ha spiegato il primo ministro descrivendo le chiare linee guida della coalizione destra-sinistra che aveva messo insieme. Questa dichiarazione è diventata il suo biglietto da visita nei suoi incontri con i leader mondiali, nonché una rete di sicurezza di fronte alla comunità internazionale.

Così, anche se Biden si era impegnato a riaprire il consolato americano a Gerusalemme, che serve la popolazione palestinese della città, ha deciso di rinviare questa iniziativa in seguito alle pressioni israeliane. Il ministro degli Esteri Yair Lapid ha avvertito durante il suo viaggio a Washington che una tale mossa, venendo prima dell’approvazione del bilancio in Israele, provocherebbe l’uscita dei partiti di destra dalla coalizione e porterebbe Israele a una quinta elezione. Bennett non ha mai nascosto la sua intenzione di procedere con una costruzione limitata negli insediamenti. ‘Israele continuerà la politica standard di crescita naturale’ ha chiarito nell’intervista al Times, che ha preceduto la sua visita di successo alla Casa Bianca. Un messaggio simile è stato dato da alti funzionari del suo ufficio in conversazione con le loro controparti americane. Hanno notato che la Lista Araba Unita, Meretz e Labor sventerebbero in ogni caso qualsiasi mossa significativa che possa sconvolgere lo status quo. L’approvazione del piano attuale impallidisce accanto ai piani di costruzione promossi dall’ex primo ministro Benjamin Netanyahu durante l’amministrazione Trump. Martedì, l’amministrazione civile israeliana che governa la Cisgiordania ha approvato la costruzione di 3.144 unità abitative, con solo 1.344 che hanno ricevuto l’approvazione finale. Il gruppo non governativo Peace Now ha riferito un anno fa che il 2020 è stato un anno record nella promozione di piani di costruzione negli insediamenti. Nei primi 10 mesi del 2020, il numero di unità abitative approvate era di 12.159. Il 91% di queste erano in insediamenti isolati, che Israele potrebbe dover evacuare in un futuro accordo di pace. Peace Now ha rimarcato che questo era un numero record per i due decenni precedenti. Le significative insidie internazionali che Bennett incontrerà ora faranno il gioco dell’opposizione. Il parlamentare Miki Zohar (Likud) si è affrettato a mettere in guardia sulle implicazioni per gli insediamenti di una spaccatura con gli Stati Uniti: ‘La dichiarazione dell’amministrazione Biden contro la costruzione in Giudea e Samaria dovrebbe preoccupare tutti noi, soprattutto quando c’è un governo che dipende dai voti della sinistra e del Movimento Islamico, ha twittato Zohar”.

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Così Lis.

Lo “Stato” dei coloni

Attualmente, secondo B’Tselem, il Centro israeliano d’informazione sui diritti umani nei Territori palestinesi occupati (Tpo) dal 1967 sono stati realizzati  duecentottanta insediamenti nella Cisgiordania, che hanno frammentato la popolazione palestinese in centosessantacinque isole territoriali non contigue. Ai 280 insediamenti vanno aggiunti 119 avamposti. Il numero dei coloni sfiora gli 800mila 42 per cento della West Bank controllato. L’86 per cento di Gerusalemme Est “colonizzata”. Uno Stato nello Stato. Dominato da una destra militante, fortemente aggressiva, ideologicamente motivata dalla convinzione di essere espressione dei nuovi eroi di Eretz Israel, i pionieri della Grande Israele. Quella che si svela è una verità spiazzante: oggi in Terrasanta, due “Stati” esistono già: c’è lo Stato ufficiale, quello d’Israele, e lo “Stato di fatto”, consolidatosi in questi ultimi cinquant’anni: lo “Stato” dei coloni in Giudea e Samaria (i nomi biblici della West Bank).

Lo “Stato di Giudea e Samaria” è armato e si difende e spesso si fa giustizia da sé contro i “terroristi palestinesi” che, in questa visione manichea, coincidono con l’intera popolazione della Cisgiordania. Molti attacchi contro i palestinesi sono stati registrati nelle aree di Ramallah e Nablus (Cisgiordania occupata). In particolare, nella zona vicina agli avamposti della Valle Shiloh e in quella in prossimità degli insediamenti israeliani di Yitzhar (Nablus) e Amona (Ramallah), quest’ultimo da poco evacuato dal governo israeliano. Nel villaggio di Yasuf (governatorato di Salfit), i residenti palestinesi si sono svegliati con i pneumatici di 24 auto bucati e alcune scritte razziste in ebraico (“Morte agli arabi” tra le più diffuse) lasciate sulle loro abitazioni. Sono i cosiddetti “price-tag” (tag mechir in ebraico) ovvero gli atti di ritorsione (il “prezzo da pagare”) compiuti dagli attivisti di destra e coloni israeliani contro i palestinesi in risposta ad un attacco da parte di quest’ultimi.

Citando ufficiali della difesa, Haaretz scrive che gli attivisti di destra più estremisti sono “i giovani delle colline”, molti dei quali vivono negli avamposti illegali della Cisgiordania e il cui numero è stimato intorno alle trecento unità. Un dato interessante è che la maggior parte dei responsabili delle violenze è giovanissima (tra i quindici e i sedici anni). Nel 1997, a un anno dal primo mandato di Benjamin Netanyahu come primo ministro, c’erano circa 150.000 coloni in Cisgiordania. Due decenni dopo il numero dei coloni è vicino ai 600.000, esclusi i quartieri di Gerusalemme est oltre la Linea Verde. Questi dati non includono i coloni che vivevano negli avamposti illegali (complessivamente si superano i 750.000). 

Il “cuore” ideologico dello “Stato” dei coloni è a Hebron.

Le categorie della politica non possono, da sole, spiegare perché ottocento coloni siano disposti a vivere blindati, e sfidare duecentomila palestinesi. Perché a spiegarlo è altro: è l’essere convinti che quella presenza ha una valenza messianica, perché qui, ti dicono, è stato incoronato Davide, perché questa è “Eretz Israel”, la Sacra Terra d’Israele, e abbandonare il campo significherebbe tradire Dio, la Torah, il popolo eletto. Hebron racconta di una bramosia di possesso assoluto che esclude l’altro da sé, ne cancella storia e identità, in nome di una “Fede” che non ammette compromessi. Tra neppure tre mesi, il 17 settembre, Israele andrà al voto, per le elezioni legislative anticipate. Con il centrosinistra che si spacca, un primo ministro, Benjamin Netanyahu, che da temere ha “solo” i suoi guai giudiziari, la destra ultranazionalista è data in crescita nei sondaggi. Nello “Stato dei coloni” non c’è partita: qui non c’è spazio per pacifisti, sinistri e sionisti. Qui il sionismo è morto.

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La denuncia di Hrw

 “Un rapporto pubblicato da Human Rights – scrive Michela Perathoner inviata di Unimondo in Palestina  dimostra con chiarezza la discriminazione perpetrata da Israele nei confronti della popolazione palestinese. ‘I bambini palestinesi che vivono in aree sotto controllo israeliano studiano a lume di candela, mentre vedono la luce elettrica attraverso le finestre dei colonii, dichiara a tale proposito Carroll Bogert, vice-direttore esecutivo per le relazioni esterne di Human Rights Watch. 

Il rapporto Separati ed ineguali, ultimo di una serie di documenti pubblicati dall’organizzazione per la tutela dei diritti umani sulla questione palestinese, identifica pratiche discriminatorie nei confronti dei residenti palestinesi rispetto alle politiche che vengono invece promosse per i coloni ebrei. Un sistema di leggi, regole e servizi distinto per i due gruppi che abitano la Cisgiordania: in poche parole, secondo Human Rights Watch le colonie fiorirebbero, mentre i palestinesi, sotto controllo israeliano, vivrebbero non solo separati e in maniera ineguale rispetto ai loro vicini, ma a volte anche vittime di sfratti dalle proprie terre e case. 

 ‘E’assurdo affermare che privare ragazzini palestinesi dell’accesso all’istruzione, all’acqua o all’elettricità abbia qualcosa a che fare con la sicurezza’, spiega ancora Bogert. Perché il problema, come sempre, è  la sicurezza, e le motivazioni indicate dal Governo israeliano qualora si parli di discriminazioni o trattamenti differenziati tra coloni e palestinesi residenti in Cisgiordania, vi vengono direttamente o indirettamente collegate. 

Il rapporto, insomma, identifica pratiche discriminatorie che non avrebbero ragione di esistere neanche in base a questo genere di motivazioni. Come denunciato da Human Rights Watch, infatti, i palestinesi verrebbero trattati tutti come dei potenziali pericoli per la sicurezza pubblica, senza distinguere tra singoli individui che potrebbero rappresentare una minaccia effettiva e le altre persone appartenenti allo stesso gruppo etnico o nazionale. Atteggiamenti e politiche discriminatorie, insomma. ‘I palestinesi vengono sistematicamente discriminati semplicemente sulla base della loro razza, etnia o origine nazionale, vengono privati di elettricità, acqua, scuole e accesso alle strade, mentre i coloni ebrei che vi abitano affianco godono di tutti questi benefici garantiti dallo Stato’, ha dichiarato Bogert. Il risultato ottenuto dalle politiche discriminatorie di Israele, che secondo Hrw renderebbero le comunità praticamente inabitabili, sarebbe, insomma, quello di forzare i residenti ad abbandonare i loro paesi e villaggi.

Secondo l’analisi realizzata da Human Rights Watch sia nell’area C che a Gerusalemme Est, la gestione israeliana prevederebbe in entrambe le zone generosi benefici fiscali e di supporto a livello di infrastrutture nei confronti degli coloni ebrei, mentre le condizioni per i locali palestinesi sarebbero tutt’altro che vantaggiose. Carenza di servizi primari, penalizzazione della crescita demografica, esproprio di terre, difficoltà amministrative per l’ottenimento di ogni genere di permessi: vere e proprie violazioni dei diritti umani, in quanto si tratterebbe di discriminazioni effettuate solo ed esclusivamente sulla base di un’appartenenza razziale ed etnica. Tutte misure che, secondo quanto denunciato da Human Rights Watch, avrebbe limitato, negli ultimi anni, l’espansione delle comunità palestinesi e peggiorato le condizioni di vita dei residenti”. 

Così l’inviata di Unimondo.

La messa fuorilegge delle Ong palestinesi è parte di questo disegno. 

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