Ricordate il Darfur? Un massacro durato 17 anni. Su cui ora è calato il silenzio. Ma nel silenzio internazionale continua. a consumarsi una tragedia umanitaria dalle dimensioni apocalittiche.
L’allarme dell’Unhcr
A darne conto è l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati che, in un comunicato, “esprime profonda preoccupazione per l’inasprirsi delle violenze in corso nella regione sudanese del Darfur, che da novembre hanno costretto migliaia di persone a fuggire anche oltreconfine facendo ingresso in Ciad.
Quasi 10.000 persone sono fuggite da un’ondata di violenze intercomunitarie esplose nella località di Jebel Moon, nel Darfur occidentale. Oltre 2.000 di queste, principalmente donne e bambini, hanno cercato rifugio nel vicino Ciad. Durante una missione di valutazione condotta a Jebel Moon la settimana scorsa, Unhcr e partner hanno assicurato alloggi d’emergenza a 1.600 nuove famiglie sfollate, nonché altri aiuti salvavita comprendenti taniche, teli impermeabili, coperte, stuoie, set da cucina e zanzariere. Le tensioni in corso a Jebel Moon restano alte e, negli ultimi giorni, episodi di violenza si sono registrati anche in altre località del Darfur occidentale, per esempio a El Geneina il 5 dicembre. Il personale dell’Agenzia sta inoltre raccogliendo testimonianze allarmanti da altre aree del Darfur riguardanti la distruzione di villaggi, casi di violenza sessuale e furti di bestiame. L’Unhcr teme che la crescente frequenza di tali aggressioni possa portare al peggioramento della situazione umanitaria nella regione. Le violenze in corso, a cui si sono sommate infestazioni da parassiti e una stagione delle piogge segnata da precipitazioni scarse, hanno inoltre causato l’interruzione della stagione della coltivazione in tutto il Darfur. Agricoltori sfollati hanno confidato al personale dell’Unhcr di temere che il raccolto possa risolversi in un totale fallimento, sollevando poi preoccupazioni ulteriori sulla sicurezza alimentare.
Dato il crescente numero di civili a rischio, Unhcr e partner stanno tenendo incontri con autorità statali e rappresentanti comunitari per confrontarsi in merito al deteriorarsi delle condizioni di sicurezza, assicurare accesso sicuro a tutte le aree colpite, e rafforzare il coordinamento delle attività di risposta umanitaria.
In Ciad, i neoarrivati hanno trovato rifugio in cinque aree a ridosso della frontiera. Hanno urgentemente bisogno di ricevere cibo, acqua e un riparo. L’Unhcr sta lavorando con le autorità e coi propri partner per assicurare loro aiuti d’emergenza. Il Ciad accoglie 520.000 rifugiati, il 70 per cento dei quali proviene dal Sudan.
In Sudan sono presenti 3 milioni di sfollati interni, oltre l’80 per cento dei quali si trova nei cinque Stati del Darfur. Nel 2021, gli oltre 200 casi di violenza segnalati nella regione hanno costretto numeri ulteriori di persone a fuggire”. Così l’Unhcr.
Due testimonianze
La prima viene da una bella intervista su Repubblica di Antonella Napoli, profonda conoscitrice del Darfur, a Niemat Ahmadi, scappata dal suo Paese dopo aver ricevuto minacce di morte, Niemat ha fondato negli Stati Uniti “Darfur women action”.
“Come vittima scampata al genocidio del ventunesimo secolo in Darfur, ho sofferto molto – racconta -. Ma oltre 300mila persone hanno pagato con la vita il disegno feroce di un uomo senza scrupoli che per 30 anni ha vessato il suo popolo per fermare la ribellione in una regione che rivendicava solo autonomia. Bashir dovrà rispondere di centinaia di villaggi bruciati, migliaia di persone massacrate, donne e bambine stuprate, orrori commessi dalle milizie da lui armate e utilizzate senza scrupoli”. E ancora:”Quando le milizie hanno cominciato ad attaccare i villaggi intorno alla mia città, la gente ha iniziato a rifugiarsi a Kabkabiya. Mio padre insieme a un gruppo del Consiglio degli anziani ha raccolto denaro per aiutare i bisognosi, la maggior parte dei quali erano donne e bambini. Fu allestito un centro di raccolta per fornire loro cibo, vestiti, medicine e fu trovato loro posto dove stare. Il governo ha mandato l’esercito per far sgomberare la struttura e ha arrestato 50 di questi uomini, tra cui mio fratello maggiore. Noi donne li abbiamo sostituiti. Nel 2004, quando il conflitto si è intensificato, siamo state picchiate e minacciate di morte al punto in cui io e le mie sorelle siamo state costrette a fuggire”.
La seconda testimonianza è nel reportage di Philip Kleinfeld e Mohammed Amin, suThe New Humanitarian, Kenya, pubblicato in Italia da Internazionale: “Le esigenze umanitarie – rimarcano tra laltro gli autori – non sono soddisfatte. Il Darfur ospitava in passato una delle operazioni umanitarie più grandi del mondo, ma i finanziamenti per queste iniziative si sono ridotti già da tempo: un fatto che risulta tristemente evidente a Geneina, dove decine di migliaia di abitanti di Krinding vivono oggi in campi improvvisati e sovraffollati sparsi in città. ‘La giustizia e l’obbligo di rendere conto del proprio operato sono un miraggio’, racconta Khadiga Ishag, che è fuggita da Krinding e vive oggi in un campo fuori da un edificio del governo locale, a Geneina. ‘Chiediamo solo un’assistenza minima’. Nonostante le nuove libertà di cui si può godere oggi in Sudan, le stesse milizie che terrorizzavano il Darfur continuano a muoversi liberamente, solo che non ci sono più le forze di pace a contenerle. Particolarmente temute sono le Forze di sostegno rapido (Rsf), una forza governativa formata da reduci janjaweed e recentemente implicata in una serie di violenze, anche a Krinding. ‘È così dal 2003’, conferma Madina Ali Mohamed, che abita a Krinding e il cui fratello è stato ucciso negli attacchi di novembre. ‘Le milizie, semplicemente, continuano a ucciderci’.
Anche le visioni contrastanti sulla transizione in Sudan e su cosa significa per il Darfur potrebbero avere contribuito a queste violenze, come emerge da decine di colloqui con funzionari governativi, lavoratori umanitari locali e gruppi della società civile a Geneina. Sentendosi rafforzati dalla transizione, i leader masalit in città hanno intensificato gli appelli per ottenere risarcimenti, giustizia e la restituzione di ampie porzioni di terra che gli erano state sottratte dalle milizie durante i conflitti del passato. Le comunità arabe, alcune delle quali occupano quei terreni, si sono di conseguenza sentite minacciate…”.
Un massacro durato 17 anni
- Una particolareggia ricostruzione è quella pubblicata su focusnafrica.info a firma Suliman Ahmed Hamid.
“Dal 2003 in Darfur – scrive Hamid – è iniziato un conflitto che ha visto contrapporsi il governo del Sudan e il fronte della ribellione del Darfur che chiedeva l’indipendenza dal governo centrale guidato dall’allora presidente Omar Al Bashir, incriminato per quegli orrori dalla Corte penale internazionale.
Le comunità del Darfur aveva chiesto a più riprese al governo centrale di poter condividere la gestione delle risorse e il potere della regione ma Khartoum ha risposto inviando sanguinarie le milizie janjaweed, i cosiddetti ‘discoli a cavallo’ che hanno iniziato a massacrare la popolazione. Crimini denunciati e documenti da Amnesty International in un dettagliato e recente rapporto che conferma come quei massacri, compiuti dalle Rapid Support Force (gli ex janjaweed) insieme alle forze militari regolari, nei confronti di uomini, donne e bambini non si siano mai fermati. Dal report emergono nuove inquietanti prove, tra cui immagini satellitari, che mostrano come per tutto il 2019 le forze di sicurezza si siano rese responsabili della distruzione totale o parziale di almeno 45 villaggi, oltre che di uccisioni illegali e violenze sessuali.
‘Nel Darfur, come a Khartoum, abbiamo assistito alla spregevole brutalità delle Forze di support rapido contro i civili sudanesi, con la sola differenza che in Darfur hanno commesso atrocità per anni nell’impunità’ ha affermato il segretario generale di Amnesty International, Mumi Naidoo, il quale ha chiesto al Consiglio militare transitorio del Sudan di ‘estromettere immediatamente le Rsf da qualsiasi funzione di polizia e di forza dell’ordine, in particolare a Khartoum e nel Darfur, e di confinarle nelle loro caserme nell’interesse della pubblica sicurezza’.
Secondo Amnesty, l’Onu e l’Unione africana ‘non devono voltare le spalle alla popolazione del Darfur che si affida alle forze di pace per la propria protezione’ e la decisione di chiudere la missione Unamid ‘metterebbe a rischio inutilmente decine di migliaia di vite’.
Nel 2017 e nel 2018 l’Onu e l’Ua hanno deciso di ridurre drasticamente il numero delle truppe Unamid, oltre a chiudere la maggior parte delle sue basi e a riconfigurare il resto della missione per concentrarsi sulla protezione dei civili nella regione del Mar Arabico del Darfur, dove i problemi relativi ai diritti umani e alla protezione erano più urgenti. Alla fine di giugno l’Ua e l’Onu dovranno votare per decidere se prorogare o ritirare tutte le restanti forze di pace dal Darfur entro il giugno 2020, compresa la maggior parte dei siti militari entro dicembre 2019. In base a quanto concordato in precedenza con il governo di Khartum, le basi Unamid avrebbero dovuto essere consegnate al governo per scopi civili, ma sono finite quasi tutte in mano alle Rsf che, secondo la denuncia di Amnesty, hanno commesso crimini contro l’umanità nel Darfur settentrionale e meridionale nel 2014, e nell’area montuosa del Jebel Marra nel 2015 e nel 2016, continuandovi a commettere crimini di guerra e altre gravi violazioni dei diritti umani.
Le stesse milizie para militari si sono rese responsabili dell’uccisione di oltre 118 manifestanti in seguito alla repressione autorizzata dall’esercito lo scorso 3 giugno a Khartoum, dopo il fallimento dei colloquio fra il Consiglio militare e le forze dell’opposizione per la spartizione del potere dopo il rovesciamento del presidente Omar al Bashir.
Secondo la Ong è grave che l’Onu e l’Unione africana considerino anche solo la possibilità di ritirare gli ultimi peacekeeper dal Darfur, consegnando di fatto alle Rsf il controllo delle aree civili.
Amnesty attraverso una lettera aperta al Consiglio di Sicurezza sottoscritta anche da Human Rights Watch e International Crisis Group aveva chiesto lo scorso aprile l’urgente invio nella regione di una forte missione delle Nazioni Unite, autorizzata a usare la forza per proteggere i civili. Ma il Consiglio di Sicurezza non ha mai adempiuto fino in fondo alla propria responsabilità di proteggere la popolazione civile del Darfur.
Secondo la risoluzione del Consiglio di Sicurezza, Khartoum avrebbe dovuto favorire, entro il 23 maggio, l’ingresso del personale Onu incaricato della pianificazione della missione ma come rilevato da Amnesty International, Human Rights Watch e International Crisis Group il Sudan non si è attenuto minimamente alla risoluzione. La missione dell’Unione Africana sta affrontando condizioni di sicurezza sul terreno in forte deterioramento. Dalla fine del 2005, gli attacchi contro i civili, gli operatori delle organizzazioni non governative e il personale dell’Unione Africana sono aumentati.
Secondo dati Onu risalenti ad aprile, almeno 650.000 civili in disperato bisogno non stanno ricevendo assistenza umanitaria perché gli operatori delle Ong non riescono a raggiungerli. L’impegno internazionale in Darfur, compreso quello regionale dell’Unione africana è progressivamente calato, per non parlare del consueto disinteresse dell’opinione pubblica e dei grandi mezzi di comunicazione”.
Darfur, per non dimenticare.