Globalist lo aveva scritto in tempi non sospetti: colpo di Stato tentato dai trumpisti. Ora nuove rivelazioni confortano quel giudizio.
L’assalto al Congresso non fu una rivolta organizzata in fretta e furia sui social, ma un piano dettagliato nei minimi particolari che avrebbe portato gli Stati Uniti a un golpe con il ritorno al potere di Donald Trump. E’ quanto afferma l’ex capo dello staff della Casa Bianca Mark Meadows. Il piano di 38 pagine è stato consegnato alla commissione che indaga sui fatti del 6 gennaio. A metterlo a punto sarebbe stato un ex colonnello dell’esercito texano sostenitore della tesi delle elezioni rubate.
Alla vigilia dell’assalto a Capitol Hill girava un piano dettagliato per la ripresa del potere da parte di Donald Trump. A consegnarlo alla commissione del Congresso che indaga sui fatti l’ex capo dello staff della Casa Bianca Mark Meadows, che ha affermato di averlo ricevuto via email ma di non averci mai fatto nulla. L’ex colonnello che ha elaborato il piano lo avrebbe invece fatto pervenire a diversi senatori prima del 6 gennaio.
Nella presentazione di 38 pagine al vaglio della commissione – riportano il New York Times e il Guardian – si raccomanda all’ex presidente di dichiarare subito lo stato di emergenza per questioni di sicurezza nazionale al fine di ritardare la certificazione della vittoria di Joe Biden da parte del Senato, fissata proprio per il 6 gennaio. A metterlo a punto sarebbe stato un ex colonnello dell’esercito texano sostenitore della tesi delle elezioni rubate, che prima del 6 gennaio lo avrebbe fatto pervenire a diversi senatori.
Golpe
Scriveva David Rothkopf, docente di Relazioni internazionali, il cui ultimo libro è un best seller negli Usa: è Traitor: A History of Betraying America from Benedict Arnold to Donald Trump. Rothkopf è anche un conduttore di podcast e Ceo di The Rothkopf Group. Un articolo rilanciato in Italia da Globalist.
“Per mesi Trump, aiutato dagli alleati del Gop nel Congresso e nei media, ha perpetuato la menzogna che le elezioni presidenziali di novembre erano state “truccate”, “rubate” da Joe Biden e dai Democratici. Lui e i suoi sostenitori hanno tentato ogni strada possibile per invertire i risultati, dalla presentazione di speciose cause giudiziarie al tentativo di intimidire i funzionari elettorali statali per invalidare i risultati.
Trump ha predetto che se i risultati non fossero stati invertiti si sarebbe scatenato l’inferno da parte dei suoi sostenitori arrabbiati. Poi, ha lavorato con quei sostenitori per assicurarsi che accadesse esattamente questo.
Quando i fraudolenti sforzi legali e legislativi di sedizione sono falliti, Trump si è rivolto a quelli violenti. Il 6 gennaio, ha detto alla folla che non avrebbe mai concesso, e li ha esortati a “combattere”, a marciare verso Capitol Hill per consegnare la loro rabbia: “Non riprenderete mai il nostro paese con la debolezza. Dovete mostrare forza”.
Il risultato fu il primo grande tentativo di colpo di stato nella storia degli Stati Uniti. Morirono cinque persone. Migliaia erano in pericolo. La sede della legislatura statunitense fu saccheggiata. Il presidente affermò che il suo incitamento pre-golpe era “totalmente appropriato”.
Una settimana dopo il tentativo di insurrezione, la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti ha impeachmentato Trump per la seconda volta. Fedele alla sua posizione di Gaslighter-in-Chief d’America, il presidente uscente ha risposto in un video che “Nessun mio vero sostenitore potrebbe mai approvare la violenza politica”.
Quel 6 gennaio…
Per ricordare cosa abbia significato per l’America il 6 gennaio 2021, vale la pena leggere questo bel servizio dell’Ansa: “E’ questa l’America, è questo il nostro Paese?”. Le parole di sgomento e di rabbia di Daniel Hodges, agente della polizia metropolitana di Washington, si alzano nell’aula del Congresso dove sono partiti i lavori della commissione di inchiesta sui fatti del 6 gennaio scorso.
E’ il giorno in cui la folla dei sostenitori di Donald Trump assaltò Capitol Hill provocando cinque morti e diversi feriti, in quello che qualcuno ha definito un vero e proprio tentativo di colpo di stato. Un golpe col quale si sarebbe dovuto ribaltare l’esito delle elezioni presidenziali vinte da Joe Biden. L’agente Hodges vide la morte in faccia, rischiando di rimanere schiacciato dal portone di ingresso del palazzo mentre tentava di fermare l’orda dei rivoltosi provenienti da un comizio del tycoon. Ora a stento trattiene le lacrime, come gli altri suoi colleghi che quel giorno erano in prima linea a difesa delle istituzioni democratiche e che con le loro drammatiche testimonianze hanno fatto rivivere il terrore di quella giornata: “Pensavamo di morire, ci urlavano contro ‘ci ha mandati Trump’ “, ricordano, spiegando tra i singhiozzi delle ferite fisiche e psicologiche ancora oggi difficili da lenire. Nei corridoi del Capitol un silenzio surreale, rotto solo dai tanti uomini della Us Capitol Police che seguono la diretta dell’audizione sui propri smartphone e sui televisori a circuito chiuso. “Volevano fermare la democrazia, scopriremo la verità”, promettono i due presidenti della commissione fortemente voluta dalla speaker della Camera Nancy Pelosi, l’acerrima nemica di Trump che con i poteri conferitigli dall’essere la terza carica dello Stato ha già permesso che l’ex presidente fosse sottoposto a due processi per impeachment. Mentre adesso va in scena il duello finale tra i due non più giovanissimi protagonisti della politica americana degli ultimi anni, lei 81 anni, lui 75. In gioco non tanto le elezioni di metà mandato del prossimo anno, in cui verrà rinnovata gran parte del Congresso, ma piuttosto le presidenziali del 2024 che potrebbero vedere ancora una volta candidato il tycoon. Stretto però tra l’inchiesta avviata in Congresso e quelle della magistratura. “Il 6 gennaio c’è stato un attacco coordinato al fine di far deragliare il processo democratico e il pacifico trasferimento dei poteri”, ha sottolineato il presidente della commissione Bennie Thompson, spiegando come i rivoltosi “arrivarono pericolosamente a raggiungere quello che era il loro obiettivo: evitare la certificazione della vittoria di Joe Biden nell’aula del Senato”. Parlano anche Adam Kinzinger e Liz Cheney, gli unici due repubblicani che contravvenendo agli ordini del partito partecipano ai lavori, da giorni bersagliati e oggetto di ostracismo per le loro dure critiche a Trump. “Non possiamo lasciare che la violenza del 6 gennaio scorso resti non indagata”, si è difesa la figlia dell’ex vicepresidente Dick Cheney: “Dobbiamo sapere cosa è accaduto davvero, e capire anche cosa è accaduto quel giorno alla Casa Bianca, minuto dopo minuto, ogni telefonata, ogni conversazione, ogni riunione, prima, durante e dopo l’attacco”. E mentre il dipartimento di giustizia potrebbe dare il via libera alla testimonianza anche di ex rappresentanti e funzionari dell’amministrazione Trump, il Washington Post con un editoriale del board ha lanciato l’appello ad ascoltare in commissione Ivanka Trump, il marito Jared Kushner, l’ex capo di gabinetto della Casa Bianca Mark Meadows e tutte le persone vicine all’ex presidente che potrebbero fornire particolari utili alle indagini”.
L’endorsement degli incappucciati
Un passo indietro nel tempo. Undici novembre 2016. All’indomani dell’elezione di Trump come nuovo presidente degli Usa, il Ku Klux Klan, in una nota ufficiale sul proprio sito, comunica l’intenzione di organizzare un corteo per la vittoria del magnate in North Carolina per il 3 dicembre (2016).
Il Ku Klux Klan aveva mandato un messaggio di congratulazioni con il suo ex leader David Duke in cui si affermava che “il clan ha avuto un ruolo enorme nell’elezione di Trump Sul sito in cui viene dato l’annuncio, l’organizzazione esprime la grande gioia per l’esito delle elezioni: sotto l’immagine del nuovo presidente eletto, compare infatti la scritta ‘Trump’s race united my people’, dove ‘race’ può essere inteso sia per corsa che per razza. Nel sito compare anche un lungo appello scritto in prima persona: “Lasciatemi cominciare parlando della falsità circolante sui media che siamo un gruppo di odio. Lasciatemi dire che nulla è più lontano dalla realtà. Non odiamo nessuno. Tuttavia odiamo alcune cose che certi gruppi stanno facendo alla nostra razza e alla nostra nazione. Odiamo le droghe, l’omosessualità, l’aborto e la mescolanza di razze perché queste cose sono contro le leggi di Dio e stanno distruggendo tutte le nazioni bianche”.
Trump aveva ricevuto l’appoggio ufficiale del Ku Klux Klan. L’endorsement era arrivato con un editoriale su The Crusader, la rivista dell’organizzazione suprematista bianca, dal titolo ‘Make America Great Again’ — ovvero lo slogan della campagna del repubblicano. Thomas Robb, direttore nazionale del Ku Klux Klan, sostiene che “questo slogan piace alla gente che si sta rendendo conto come in America sia successo qualcosa di male.” “Non so quante persone siano favorevoli a questo slogan, ma evidentemente ce ne sono state abbastanza per far sì che Trump vincesse le primarie repubblicane.” Non è la prima volta che esponenti del KKK si dicono vicini alle idee di Trump. Il team del tycoon aveva già dovuto prendere le distanze dalle parole di supporto pronunciate dal su citato da David Duke, l’ex leader supremo dell’organizzazione. A Robb, però, questo non sembra interessare. “Non ci importa; [Trump] può anche condannarci tutto il giorno,” ha detto Robb a VIce News. “Noi siamo concentrati sul messaggio.” Un messaggio che, a detta di Robb, si riferisce “alla salvaguardia dell’identità bianca.” “Siamo preoccupati per il genocidio dei bianchi, per i bianchi che stanno diventando una minoranza,” ha aggiunto il direttore del KKK. “I bianchi hanno il diritto di amare la propria storia e la propria cultura.” Robb spiega di aver votato per candidati repubblicani in passato, ma che nessuno di loro è mai stato “così nazionalista” come Trump. “Non è un suprematista bianco,” aggiunge Robb. “Non lavora per i bianchi, ma credo che la sua linea politica crei un terreno fertile affinché tutti – compresi i bianchi – possano sposare la propria identità”.
Scrive Guido Caldiron nel suo libro Wasp. L’America razzista dal Ku Klux Klan a Donald Trump (Fandango Editore) : “L’endorsement più significativo, e sinistro, sarebbe arrivato da David Duke, già Gran Dragone dei Knights of the Ku Klux Klan alla fine degli anni Settanta e in seguito divenuto una delle figure chiave del circuito negazionista e neonazista internazionale. ‘Trump ha capito che l’immigrazione rappresenta una minaccia esistenziale per il nostro popolo. Questo paese ha bisogno di sorvegliare le frontiere per difendere il proprio retaggio e garantire la sopravvivenza degli americani bianchi’, spiegherà l’ex klansman già nell’agosto del 2015. ‘Grazie alla campagna di Trump, questi temi vengono oggi presentati in modo giusto a tutto il paese e ciò rappresenta un’ottima chance anche per noi’.
In seguito lo stesso Duke, che dopo tre anni di mandato come parlamentare locale, nel 1991 si candidò senza successo, nelle fila repubblicane, alla carica di governatore della Louisiana, avrebbe annunciato la sua volontà di tornare a misurarsi con la corsa per un seggio a Capitol Hill, galvanizzato proprio dalla discesa in campo del miliardario. ‘Ho detto da tempo tutto quello che dice Trump e anche di più. Lui si candida oggi sull’onda di una tendenza che ho contribuito ad alimentare per 25 anni’, dirà Duke annunciando la sua nuova corsa nello Stato del profondo Sud. Da notare come la reazione del candidato repubblicano a questo imbarazzante sostegno sarebbe arrivata solo a distanza di settimane e nella forma di una sconfessione da molto giudicata troppo blanda: Trump definirà Duke come una ‘bad person’, da cui ‘ho già preso le distanze in varie occasioni nel corso degli anni’”.
Spiega Derek Black, trentenne figlio di un Gran Dragone del KKK, già star radiofonica di Stormfront e oggi ricercatore “convertito”. Parlando con Npr (National Public Radio) dei toni di certi gruppi e di alcuni oratori alla convention repubblicana di agosto, Black sostiene: ‘La parola “bianco” non compare mai in nessuno dei loro discorsi. Mi viene in mente il mio padrino David Duke che alla fine degli anni Ottanta è riuscito a farsi eleggere nell’Assemblea della Louisiana. Non ha mai usato epiteti razzisti. Non ha mai attaccato gruppi. Ha sempre usato il linguaggio delle vittime: la maggioranza silenziosa. Le vere vittime sono persone come te e me, che si battono contro le forze del politicamente corretto, contro le forze della discriminazione. La vera discriminazione è contro le persone che ci assomigliano ‒ e non si arriva mai a dire che le vittime sono i bianchi, perché bisogna sempre evitare di essere chiamati razzisti”.
In questo mondo di incappucciati, sciamani, suprematisti bianchi, fondamentalisti evangelici, gruppi dichiaratamente antisemiti, neonazisti, Donald Trump ha pescato i suoi miliziani. Quelli che hanno provato a dare una spallata armata alla democrazia Usa.
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