In una delle scene finali di Apocalypse now, uno dei capolavori del cinema, liberamente tratto dal romanzo Cuore di tenebra di Joseph Conrad, Marlon Brando che interpreta il mitico colonnello Kurtz, si abbandona a un lungo monologo davanti a quello che sarà il suo giustiziere, che si conclude con la ripetizione ossessiva della parola orrore. Kurtz si trovava in Vietnam per combattere una guerra per la libertà e la democrazia, ma a un certo punto decide di intraprendere una sua guerra personale, folle, con metodi insani. Kurtz sceglie di essere coerente, e discende consapevolmente i gradini dell’inferno per mostrare l’assurdo che si nasconde in ogni conflitto. Alla fine del monologo Kurtz ripete la parola orrore in un crescendo compulsivo e spiega che ha un volto, l’orrore, e che bisogna essere amici dell’orrore. Aggiunge poi che orrore e terrore morale devono essere amici quando si combatte, e racconta che i vietcong avevano mozzato le braccia ai bambini che gli americani avevano appena vaccinato. Dapprima ho pianto, confessa, come una povera donna, ho pianto, ma poi ho capito, come se mi avessero sparato un diamante. Che genio in quell’atto! Un gesto perfetto. In quel momento, prosegue Kurtz, ho realizzato che avrebbero vinto. Avevano un cuore ma la forza di farlo.
Ecco cosa è la guerra, guardare in faccia l’orrore, farselo amico ed esercitare un terrore morale puro, primordiale, accompagnato all’istinto di uccidere, senza sentimenti, senza passione, senza giudizio, perché è il giudizio che ci indebolisce.
Le immagini di Bucha sono l’orrore e non lasciano spazio per le spiegazioni. Bisogna guardarle, perché sono l’essenza della guerra. I corpi maltrattati, abbandonati, sconsacrati, ridotti a macerie sono il segno che la guerra è passata da lì. Lasciamo stare il rimpallo delle responsabilità, anche se appare molto probabile che il massacro, purtroppo non l’unico, sia opera di un esercito in ritirata, che intendeva lasciare una traccia indelebile e un monito terroristico nei confronti dei sopravvissuti.
C’è qualcosa che turba e inquieta più ancora del tentativo meschino di nascondere la mano assassina che ha colpito gli innocenti ed è quella parte di opinione pubblica, sostenuta dalla propaganda russa, che nega la realtà di ciò che gli occhi degli inviati di mezzo mondo hanno visto.
Negazionismo è la parola chiave per questo tempo senza dignità. Negazionismo per brama di rimescolare le carte e confondere gli animi, fino a sovrapporre realtà e finzione. Per decenni il negazionismo è stato il territorio in cui si sono applicati i nostalgici del nazismo, che hanno inventato le teorie più strampalate per negare l’esistenza dei Lager e la Shoah. Le loro teorie aberranti sono state smentite dai sopravvissuti, testimoni viventi di un orrore che si voleva nascondere, minimizzare.
Ora il tarlo negazionista si ripresenta con nuovi argomenti, ancora più sorprendenti. Uno dei guru della cultura dello spettacolo, Carlo Freccero, in una seduta della fantomatica Commissione DuPre ha avanzato l’ipotesi provocatoria che la gran parte delle immagini che arrivano dall’Ucraina siano false, prodotte per screditare e creare un sentimento antirusso nell’opinione pubblica. Generate da una lettura scolastico e superficiale di Guy Debord, le tesi di Freccero raggiungono però l’obiettivo di intorbidire i fatti, trasformando il reale in virtuale, e finendo per sollevare gli aguzzini dalla loro responsabilità, in un nihilismo morale che non sa più distinguere il giusto dall’ingiusto, la vittima dal carnefice. Molti hanno seguito questa decostruzione, accettando di fatto la versione russa, ma al di là della malafede, che cosa spinge una parte dell’opinione pubblica verso una deriva morale così preoccupante?
Si tratta di una gigantesca rimozione di massa, perché non sappiamo tenere aperti gli occhi sull’orrore. In fondo la spiegazione negazionista è tranquillizzante. Nulla è vero, i corpi sono finti, le persone morte sono attori, che si sono rialzati dopo la performance e siamo tutti in un meraviglioso e sfavillante Truman show dove niente è reale, soprattutto la morte, che non esiste. Guardare negli occhi l’orrore è un privilegio per pochi, perché significa interrogarsi seriamente sui responsabili dell’orrore, che alla fine sono uomini come noi, e per questo ciò che hanno fatto ci riguarda, coinvolge la nostra natura.
Un altro modo per sfuggire all’orrore è lo slogan qualunquista che recita il mantra “È la guerra”, e in questo modo le atrocità vengono ricondotte a una normalità inoffensiva. Si vuole addomesticare ciò che turba, ma non basta, non è sufficiente neutralizzare l’orrore, riconducendolo alla quotidianità di ogni conflitto per sfuggire all’orrore, perché anche la guerra ha un codice etico, ed è esiste una giurisprudenza che regola e disciplina la guerra, come la Convenzione di Ginevra, c’è una Corte penale internazionale istituita dal 2002. Se ciò non bastasse varrebbe la pena ricordare il reato di crimine contro l’umanità, che è stato introdotto fin dal 1915 per perseguire il genocidio degli armeni da parte dei Turchi e viene ripreso dalla corte di Norimberga dopo la 2° guerra mondiale. Il crimine contro l’umanità è il complesso delle azioni, quali assassinio, deportazione e qualsiasi altro atto disumano, compiute durante una guerra contro una popolazione civile. E se ancora non fossimo soddisfatti potremmo aggiungere un ulteriore complesso di reati sanzionati come crimini di guerra, che comprendono la violazione delle protezioni stabilite dalle leggi di guerra, come il maltrattamento dei civili e dei prigionieri di guerra.
Sia che proviamo a de-realizzare gli eventi sotto la categoria della fiction, sia che riconduciamo ogni brutalità alla logica spietata della guerra, ciò che va perduto è l’orrore e con esso lo sdegno e l’indignazione, che sono il principio, il momento nascente di una vera rivolta pacifista. L’unico vero pacifismo è infatti quello che sceglie di assumersi la responsabilità dell’orrore per combatterlo ed estirparlo dal cuore e dalla mente dei combattenti, sapendo che però che la pace è non può essere un concetto metafisico, ma un evento storico e politico, che si costruisce con la lotta e la resistenza all’oppressione, perché una pace ingiusta, senza condizioni, è soltanto una resa e non guarisce dagli orrori della guerra.