Il Marocco "accoltella" i palestinesi e fa asse con Israele
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Il Marocco "accoltella" i palestinesi e fa asse con Israele

Colloqui odierni a Rabat tra il capo dell'esercito israeliano Aviv Kochavi e alti funzionari marocchini, nell'ambito della crescente cooperazione anche militare tra i due stati.

Il Marocco "accoltella" i palestinesi e fa asse con Israele
Militari marocchini
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

20 Luglio 2022 - 18.01


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Come non bastasse Arabia Saudita, Egitto, Qatar, Bahrein, Iran, Turchia, ora anche il Marocco si aggiunge al lungo elenco dei fratelli-coltelli arabo-musulmani che hanno affossato la “causa palestinese”.

L’asse Rabat-Tel Aviv

Israele e Marocco hanno cementato la loro alleanza militare durante i colloqui odierni a Rabat tra il capo dell’esercito israeliano Aviv Kochavi e alti funzionari marocchini, nell’ambito della crescente cooperazione tra i due stati. Arrivato in Marocco ieri, il generale Kochavi è stato ricevuto da Abdellatif Loudiyi, ministro delegato alla Difesa, per la prima visita ufficiale di un capo di stato maggiore israeliano nel regno di Cherifian, ha spiegato l’esercito dello stato ebraico in una dichiarazione.

Il generale israeliano si è poi recato al quartier generale delle Forze armate reali marocchine (Far), dove ha parlato con il suo omologo, il generale Belkheir al Farouq, e con il capo dell’intelligence militare Brahim Hassani.

Durante le discussioni, la parte marocchina ha espresso “interesse a creare congiuntamente progetti di difesa industriale in Marocco”, ha affermato lo staff generale delle Far in un comunicato stampa distinto. Sul versante militare, “questa visita ha permesso di esaminare le opportunità per sviluppare ulteriormente gli assi di cooperazione relativi principalmente alla formazione, al trasferimento di tecnologie nonché alla condivisione di esperienze e competenze”, ha sottolineato con favore lo Stato Maggiore marocchino. Il riavvicinamento tra i due stati è accelerato dalla normalizzazione delle loro relazioni nel dicembre 2020, sostenuta da Washington. Gli osservatori israeliani hanno partecipato per la prima volta a fine giugno all’esercitazione militare “African Lion 2022”, la più grande del continente africano, organizzata congiuntamente da Marocco e Stati Uniti.

Gli Stati Uniti, per l’appunto. Di grande interesse è l’analisi valutativa della recentissima missione mediorientale di Biden, fatta da Zvi Bar’el, tra le firme più autorevoli di Haaretz.

Scrive Bar’el: “Il frettoloso botta e risposta tra il presidente degli Stati Uniti Joe Biden e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman ha scatenato, come previsto, una valanga di critiche sulla “normalizzazione” delle relazioni tra il presidente americano e l’uomo che, secondo l’intelligence statunitense, avrebbe ordinato l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi. “Una vergogna”, “umiliante” e “un insulto ai diritti umani” sono solo alcuni dei termini furiosi usati dai media occidentali, soprattutto negli Stati Uniti.

“Può garantire che un simile omicidio non si ripeterà?”, ha chiesto un giornalista a Biden durante una conferenza stampa a Gedda. “Dio ti ama”, ha risposto Biden. “Che domanda sciocca. “Come posso essere sicuro di tutto questo?”.

Biden ha ragione. Anche se si fosse astenuto dal visitare l’Arabia Saudita o dal litigare con il principe Mohammed, non sarebbe stato in grado di garantire la sicurezza di alcun obiettivo futuro, né di fermare le esecuzioni o la repressione dei diritti umani in corso in Arabia Saudita. In generale, se Biden o qualsiasi altro presidente americano dovessero calibrare la loro politica in base a criteri morali, è dubbio che potrebbero stringere la mano a qualsiasi leader mondiale. Alla luce delle spiegazioni di Biden, ci si può solo chiedere perché il presidente si sia astenuto dal visitare il regno fino ad ora.

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Anche dopo questa visita, il principe ereditario saudita non sarà l’amico preferito dell’amministrazione Biden. Ma almeno quando Biden dichiara che non abbandonerà la regione alla Russia e alla Cina, può sperare che l’Arabia Saudita e i suoi vicini ascoltino meglio le richieste americane.

Potrebbero ascoltare, ma non necessariamente obbedire. L’Arabia Saudita ha già stipulato ampi accordi commerciali e di investimento sia con la Russia che con la Cina. Non ha rispettato le sanzioni occidentali contro la Russia, e nemmeno gli Emirati Arabi Uniti. In Egitto, la costruzione russa di un reattore nucleare da 25 miliardi di dollari è già iniziata.

Nel frattempo, la Cina controlla gran parte di una nuova zona industriale in costruzione lungo il Canale di Suez e le aziende cinesi stanno costruendo una capitale amministrativa vicino al Cairo. La Cina dovrebbe anche costruire 1.000 scuole in Iraq ed è in fase avanzata di trattative con il Qatar per lo sviluppo del più grande giacimento di gas del mondo e per l’acquisto a lungo termine di gas qatariota. Un accordo a lungo termine Cina-Iran vedrà la Cina investire centinaia di miliardi di dollari in infrastrutture in cambio di petrolio a basso costo e di avamposti navali nel Golfo Persico. Un’alleanza arabo-americana contro la Cina è qualcosa che i Paesi arabi non possono permettersi in questo momento.

Biden desidera tornare nel club da cui si è ritirato di sua iniziativa e porta con sé la proposta di un’alleanza di difesa reciproca arabo-israeliana-americana diretta contro le “minacce regionali”. Fino a poco tempo fa non era necessario specificare la fonte di tali minacce, anche se l’Iran è stato l’ovvio obiettivo di qualsiasi coalizione regionale a guida saudita. Ma il vertice di Gedda ha fissato i confini di questa cooperazione.

Già un anno fa l’Arabia Saudita aveva dichiarato di non voler fungere da rampa di lancio per una guerra contro l’Iran e di voler portare avanti una mossa diplomatica che potrebbe portare alla ripresa delle relazioni con Teheran. Venerdì scorso il consigliere senior del sovrano degli Emirati Arabi Uniti, Anwar Gargash, ha dichiarato che il suo Paese sta discutendo con l’Iran sull’eventuale invio di un ambasciatore emiratino a Teheran. Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sissi ha trasmesso messaggi tranquillizzanti all’Iran, affermando di non avere alcuna intenzione di unirsi a tale alleanza regionale. L’Iraq, intanto, dipende dall’Iran per il gas e l’elettricità.

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I leader di questi Paesi, tutti partecipanti al vertice di Gedda, non hanno menzionato affatto Israele. Hanno solo concordato sulla necessità di cooperare. Non sono stati forniti dettagli sui piani operativi, né sulla creazione di un coordinamento o di un calendario per il proseguimento dei colloqui – e forse non ce ne sono. Diversi Stati del Golfo stanno già beneficiando della tecnologia militare israeliana e hanno persino tenuto esercitazioni congiunte con il Paese, ma c’è un enorme divario tra una limitata cooperazione bilaterale e un’alleanza che obbligherà tutti i partecipanti a lanciare una guerra difensiva se uno di loro viene attaccato.

Biden ha presentato l’integrazione di Israele nel Medio Oriente come uno degli obiettivi principali della sua visita. Anche in questo caso, però, ha ricevuto una risposta fredda. La pace e la normalizzazione con Israele – e non sono termini identici – non saranno stabilite tra il regno e Israele finché non si troverà una soluzione al conflitto israelo-palestinese, ha dichiarato il ministro degli Esteri saudita Adel Jubeir.

Si tratta di una condizione molto più modesta di quella presentata dall’Iniziativa di pace araba nel 2002, secondo la quale Israele doveva ritirarsi da tutti i territori occupati e accettare la creazione di uno Stato palestinese. Tuttavia, la condizione è stata sufficiente a chiarire a Israele e agli Stati Uniti che la narrazione israeliana, secondo la quale i Paesi arabi hanno completamente abbandonato la questione della Palestina, è inesatta. Gli aerei che volano da o verso Israele sono ora autorizzati ad attraversare lo spazio aereo saudita, così come i voli diretti che permettono ai musulmani israeliani di recarsi in pellegrinaggio alla Mecca – il che significa che questi passeggeri possono ora evitare costosi e lunghi scali – ma questo non sostituisce le relazioni diplomatiche, e certamente non la normalizzazione tra i Paesi.

Mentre gli israeliani attendevano con ansia una dichiarazione cerimoniale di adesione formale del Paese all’alleanza araba, o almeno la partecipazione di un alto funzionario israeliano ai colloqui di Gedda, gli americani aspettavano di sentire da Biden un calo del prezzo del petrolio. Questi ultimi sono diminuiti nelle ultime settimane, anche se a causa degli sviluppi dei mercati globali e non della diplomazia americana.

Se Biden si aspettava che MBS annunciasse pubblicamente l’intenzione di aumentare la produzione di petrolio, anche solo per dare al Presidente un importante regalo politico al suo ritorno a Washington, ha ricevuto una risposta fredda: evasiva, insoddisfacente e non vincolante.

L’Arabia Saudita ha detto che continuerà a garantire che il mercato globale del petrolio sia “equilibrato”, in modo da non avvertire carenze. Ma secondo la visione saudita c’è abbastanza petrolio in circolazione e gli aumenti dei prezzi sono il risultato di forze speculative, di motivazioni politiche e psicologiche. I sauditi hanno chiarito di essere legati alla politica degli Stati esportatori Opec+ e che non c’è motivo di cambiare ora la produzione, soprattutto dopo la decisione del mese scorso di mettere in atto un aumento stagionale.

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L’Arabia Saudita sta raccogliendo i benefici degli attuali prezzi del petrolio, che le permettono di accumulare le riserve necessarie per completare i grandiosi megaprogetti di MBS. In pratica, anche se i sauditi dovessero aumentare la loro produzione, le capacità del regno si limiterebbero ad aggiungere un altro milione – 1,5 milioni di barili al giorno – e questo solo per un massimo di tre mesi.

La visita di Biden e il vertice arabo che si è tenuto a Gedda in suo onore potrebbero essere caratterizzati come uno sforzo per ricostruire le relazioni di Washington con Riad sotto l’egida di una nuova alleanza strategica regionale. Se c’è una novità, è che la strategia regionale è ora dettata dagli stessi Paesi arabi, con gli Stati Uniti costretti ad adattarsi a un Medio Oriente che si è modellato da solo durante un periodo in cui gli Stati Uniti hanno tentato con tutte le loro forze di distaccarsene”.

Così Bar’el.

Nella sua analisi non trova spazio la questione palestinese. Non è una dimenticanza. E’ che nell’agenda internazionale americana, il capitolo palestinese è assolutamente marginale, mentre sul fronte arabo-musulmano, è una questione che fa parte di un gioco di potenza più vasto e che investe gli equilibri complessivi in Medio Oriente. In questa ottica, la questione palestinese s’inquadra nello scontro che vede contrapposte le petromonarchie sunnite e l’Iran sciita. In mezzo, con mire non meno egemoniche, la Turchia e l’Egitto. Su queste divisioni punta Israele ed è contro l’espansionismo (vero o presunto) dell’Iran nella regione, che lo Stato ebraico prova a rinsaldare i suoi rapporti con i Paesi del Golfo arabico. Quanto alla leadership palestinese, sia nella sua variante moderata-nazionalista (L’Autorità nazionale palestinese del vecchio e malandato Mahmoud Abbas) che in quella islamista (Hamas), la sua autonomia è vicina allo zero. Possono alzare la voce, arrivare a sparare da Gaza qualche razzo contro le città frontaliere d’Israele, ma la realtà è che per mantenere in vita, per quanto precaria, l’autonomia palestinese ci sarebbe bisogno di un…Yasser Arafat. Forse uno che, per carisma e capacità di manovra, ce ne sarebbe. Ma è chiuso in un carcere di massima di sicurezza israeliano, condannato a più ergastoli. Il suo nome è Marwan Barghouti. 

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