Ucraina, e se l'America ci chiedesse "consiglieri" boots on the ground?
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Ucraina, e se l'America ci chiedesse "consiglieri" boots on the ground?

In Ucraina sono già attivi molti occidentali, semplici volontari ma anche appartenenti a società private come la Mozart, guidata da un ex ufficiale dei marine

Ucraina, e se l'America ci chiedesse "consiglieri" boots on the ground?
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31 Luglio 2022 - 17.46


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La notizia l’hanno data due giornalisti – Andrea Marinelli e Guido Olimpio – seri, documentati, che nulla hanno a che fare con la masnada di pataccari nostrani, quelli dei fake scoop.  Ed è una notizia che dovrebbe irrompere nella campagna elettorale di un Paese che abbia rispetto di sé e del suo ruolo nella comunità internazionale. Il titolo dell’articolo a doppia firma su Il Corriere della Sera, basta e avanza per scatenare il dibattito: “L’Ucraina come il Vietnam: a Washington pensano di inviare ‘consiglieri’ per gestire gli aiuti”.

E nell’articolo Martinelli e Olimpio, spiegano: […]“Maggio 1961, il presidente americano John Kennedy ordina l’invio di 400 Berretti Verdi in appoggio all’esercito sud vietnamita. Sono squadre delle Special Forces che dovranno aiutare le truppe locali e i ribelli anti-comunisti. È il primo passo di quello che diventerà un coinvolgimento massiccio. I «consiglieri», insieme agli uomini della Cia, faranno da avanguardia nella giungla, nelle zone montuose, nei villaggi difensivi. Appena un anno dopo il loro numero salirà a 11 mila, e l’America scivolerà in un inferno. 

Luglio 2022. Michael Waltz, parlamentare repubblicano della Florida, primo Berretto Verde ad essere eletto alla Camera, veterano dell’Afghanistan, è stato a Kiev dove ha incontrato, insieme a un gruppo di colleghi della commissione servizi armati, il presidente Zelensky. Un colloquio che lo ha portato a suggerire un’iniziativa alla Casa Bianca: lo schieramento di consiglieri al fianco delle forze ucraine. Il loro compito sarebbe quello di agevolare il flusso di armi, la gestione e la loro distribuzione, idea apprezzata — e rilanciata — dallo stesso leader di Kiev che vorrebbe tre cellule di coordinamento per pianificazione, logistica e comunicazione strategica. Gli uomini sarebbero la proiezione del centro di coordinamento attivo in una base della Germania, il perno del gigantesco piano d’assistenza.

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Per Waltz la prima scelta potrebbe cadere su personale «a contratto», magari ex militari e civili ingaggiati dal Pentagono poi impiegati nel ruolo di «consulenti» operativi, ma lontani dal fronte: dovrebbero lavorare dall’ambasciata di Kiev. Ma il politico non esclude a priori la chiamata di soldati regolari. E in questo caso è inevitabile che siano necessari degli specialisti come i Green Berets, i ranger, i parà, qualsiasi unità possa rispondere alle esigenze della resistenza. Una parte è già impegnata con una presenza in Polonia ed in altri Paesi dove è condotto il training degli ucraini. Se dovesse passare la proposta del deputato, dovrebbero trasferirsi dall’altro lato del confine. 

In realtà in Ucraina sono già attivi molti occidentali, semplici volontari ma anche appartenenti a società private come la Mozart, guidata da un ex ufficiale dei marines. Alcuni si occupano dell’addestramento, altri si dedicano al settore droni e altri ancora a fronti che non conosciamo. È un lavoro rischioso, testimoniato dall’uccisione di un paio di elementi.[…] «Il problema — ha puntualizzato Waltz al Washington Post — è la Casa Bianca». Joe Biden ha sempre escluso l’impegno di soldati in Ucraina, la Difesa ritiene che un impegno «pubblico» a Kiev e dintorni trasformerebbe i soldati in bersagli legittimi per la Russia. Al tempo stesso i media statunitensi hanno raccontato l’attività «clandestina» della Cia – del braccio paramilitare – svelando un segreto che non era tale. Waltz, consapevole di timori e freni, ha tenuto a precisare che nessuno vuole vedere degli americani in prima linea, l’unico obiettivo è quello di dare una mano all’alleato nelle retrovie. Il problema  – concludono Martinelli e Olimpio – è sempre il solito: sai come inizia, non sai come finirà”.

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Sai come inizia, non sai come finirà. In Vietnam si è saputo, grazie al grande giornalismo d’inchiesta che ha fatto storia (anche cinematografica), come è iniziata davvero e i libri di storia raccontano come è finita. E’ vero, come rimarca il Corriere: Biden non vuole: 61 anni fa, in Vietnam, fu il primo passo verso l’inferno. Ma è altrettanto vero che Biden è in grande difficoltà in America. Le elezioni (novembre) di medio termine si preannunciano come una Caporetto per i Democratici. Il rischio che negli ultimi due anni di presidenza, Biden sia un’”anatra zoppa” è molto più che probabile. E nel Congresso già oggi c’è una “lobby” interventista trasversale che spinge per un intervento diretto, scarponi sul terreno, in Ucraina. 

E noi?

Che da tempo la guerra in Ucraina si sia trasformata in una guerra per procura, Globalist lo ha scritto in più articoli. Così come gli interessi di vari attori esterni a “cronicizzare” il conflitto, anche per far piacere all’onnivoro sistema industriale-militare che sulla guerra fa i suoi affari miliardari.  Tutto questo non ci coinvolge? Non chiama in causa anche l’Italia? Potrebbero sembrare domande retoriche, ma purtroppo non è così. Perché da noi la politica estera, anche in tempi di guerra, torna ad essere un’appendice della politica interna, utile per qualche battuta polemica, per fare la gara a chi è più fedele all’America e tacciare gli altri di essere al servizio, magari pure ben retribuito, dello zar del Cremlino. Siamo davvero messi male. Molto male.

Con i leader dei due partiti che i sondaggi danno come in lotta per il primato (Fratelli d’Italia e Partito democratico) a chi sbandiera con più enfasi la propria fedeltà atlantica. Per il resto, il nulla. Nessuna criticità per ciò che la guerra è diventata. Nessuna riflessione critica su una Europa sempre più subalterna all’alleato di oltre Atlantico.  La memoria ci fa difetto, e dalla storia non abbiamo tratto lezione. Una guerra si sa (forse) come inizia ma non come potrà finire. E le cose si fanno ancor più preoccupanti quando negli Stati Uniti si comincia a parlare dell’invio di “consiglieri”. Cosa ne pensano i politici che ambiscono a guidare l’Italia? Sono disposti a seguire l’America anche in questa possibile avventura? Saremo alleati o vassalli? Al momento non è dato sapere. E questo è grave. Grave ma rispondente ad un andazzo che non nasce oggi ma che in una situazione di guerra è ancora più preoccupante. Per restare a questa legislatura ormai agli sgoccioli, sul piano internazionale l’Italia ha perso peso, posizioni, e a coprire questo deficit non è bastata l’autorevolezza internazionale di Mario Draghi. L’Italia è stata messa ai margini Libia, in Libano, nel Mediterraneo. Sull’Ucraina abbiamo provato a legarci a Francia e Germania, ma ora la crisi di governo ci ricaccia indietro, anche perché, come qualsiasi fonte diplomatica a Bruxelles può confermare, l’Italia era ascoltata perché a parlare era Draghi. Può piacere o meno, ma è così. Dopo il 25 settembre non lo sarà più. E se dall’America ci chiederanno di inviare anche noi “consiglieri” boots on the ground, chi sarà a Palazzo Chigi saprà dire “No”? Ne dubitiamo fortemente. Che possa farlo Giorgia Meloni, ultrà atlantica per convinzione e per necessità, beh, il dubbio si fa certezza. 

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