Israele, la morte di Khalil Awawdewh e la vergogna dell'Alta Corte di Giustizia
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Israele, la morte di Khalil Awawdewh e la vergogna dell'Alta Corte di Giustizia

Due settimane fa la Corte ha respinto la richiesta di rilascio del detenuto amministrativo Khalil Awawdeh, in sciopero della fame.Poi è intervenuto lo Shin Bet

Israele, la morte di Khalil Awawdewh e la vergogna dell'Alta Corte di Giustizia
Khalil Awawdeh
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

3 Settembre 2022 - 17.19


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“Questa settimana l’Alta Corte di Giustizia ha raggiunto uno dei punti più bassi della sua storia. Domenica scorsa, due settimane fa, la Corte ha respinto la richiesta di rilascio del detenuto amministrativo Khalil Awawdeh, in sciopero della fame. A quel tempo, Awawdeh era già mortalmente malato. Il suo peso corporeo era sceso a 38 chilogrammi (meno di 84 libbre), stava diventando cieco e la sua coscienza era offuscata. Il suo sciopero della fame durava ormai da 172 giorni. I giudici Daphne Barak-Erez, Ofer Grosskopf e Alex Stein hanno scritto nella loro decisione che dopo aver esaminato il materiale riservato – ovviamente lontano dagli occhi dei firmatari – la loro conclusione è stata che esiste una “solida e sostanziale giustificazione” per il mantenimento della detenzione di Awawdeh. Trascorsa circa una settimana, le condizioni di Awawdeh sono ulteriormente peggiorate e di nuovo è stata presentata una petizione all’Alta Corte a causa dell’immediato pericolo di vita. Martedì di questa settimana il giudice Anat Baron, considerato un giudice liberale, ha stabilito che non si era verificato alcun cambiamento significativo nelle circostanze che giustificasse l’intervento del tribunale, dal momento che la decisione precedente era stata emessa solo una settimana prima.


Insieme ai giudici Stein e Chaled Kabub, Baron ha stabilito che il fatto che non sia stato presentato un atto d’accusa non ha alcuna rilevanza sull’entità della forza delle prove, perché rivelarle “potrebbe danneggiare gravemente la sicurezza dello Stato”. In altre parole, l’Alta Corte di Giustizia ha deciso che il moribondo non deve essere rilasciato a causa del pericolo che rappresenta.

Solo 24 ore dopo, meraviglia delle meraviglie: Il servizio di sicurezza Shin Bet ha accettato di rilasciare il detenuto al termine dell’attuale periodo di detenzione, all’inizio di ottobre. Fino ad allora rimarrà in ospedale come uomo libero. I giudici dell’Alta Corte devono ora appendere la testa per la vergogna. Se fosse necessaria un’ulteriore prova che in materia di occupazione la Corte non è altro che un vuoto timbro di gomma, un organo che si sottomette automaticamente e ciecamente a ogni capriccio dello Shin Bet, questo caso ne è la prova inconfutabile. Martedì Awawdeh era ancora pericoloso, mercoledì non lo era più, e tutto questo con l’approvazione dell’Alta Corte di Giustizia che, come in molti altri casi, è stata condotta sul sentiero del giardino dallo Shin Bet. Il ruolo dell’Alta Corte è quello di sorvegliare e frenare lo Shin Bet, non di diventare un suo abietto servitore. Questa settimana la Corte ha dimostrato di non essere all’altezza di questo compito, rendendosi anche ridicola”.

Ai difensori nostrani d’Israele, quelli che non ammettono la minima critica nei riguardi dello Stato ebraico, facciamo presente che quello riportato è un editoriale di Haaretz, tra i più autorevoli e diffusi giornali israeliani. 

Case demolite, risoluzioni disattese…

E per gli stessi esegeti di Eretz Israel, sempre pronti a tacciare di antisemitismo chi critica la colonizzazione dei Territori palestinesi e il regime di apartheid in essi instaurato, elenchiamo i seguenti dati: Sessantamila: le abitazioni di palestinesi che Israele ha demolito dal 1967 ad oggi. Settantatre: le risoluzioni delle Nazioni Unite disattese da Israele. Trecentodiciannove: sono i palestinesi uccisi da Israele nel 2021. 

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Annota in proposito Gideon Levy, uno dei più autorevoli e affermati giornalisti israeliani: “L’anno scorso Israele ha ucciso 319 palestinesi. È stato un anno piuttosto tranquillo, senza una vera guerra e con relativamente pochi attacchi terroristici. Sono stati uccisi 319 palestinesi, quasi tutti senza motivo, quasi tutte le loro morti ingiustificate, e quasi tutti erano disarmati. Pochi di loro hanno messo in pericolo qualcuno. Erano per la maggior parte manifestanti e contadini, e pochi di loro hanno effettivamente cercato di perpetrare attacchi terroristici. Eppure, nonostante questo, Abbas ha accettato di incontrare la persona che ha supervisionato le uccisioni, la persona che ha dato l’ordine, l’ha appoggiata e l’ha persino lodata. Nel corso dello stesso anno, sono stati uccisi anche 11 israeliani, 29 volte meno. Un rapporto di 319:11. Il piccolo numero di vittime israeliane fa certamente piacere a molti israeliani, ma oltre alla gioia, non c’è traccia di quella che dovrebbe essere una domanda inquietante. Che tipo di proporzione è questa? Attesta semplicemente l’equilibrio di potere tra le due parti? Gli assassini dei 319 sono i buoni, che proteggono davvero le loro vite, mentre gli assassini degli 11 sono terroristi e assassini i cui capi non devono essere incontrati?

E soprattutto, quanto altro sangue palestinese deve essere versato prima che la gente in Israele osi coraggiosamente e onestamente, per la prima volta nella storia di questo paese, rispondere alla domanda su chi qui è un terrorista e chi lotta per i suoi diritti – prima di sentenziare   che l’incontro con Abbas s non è ammissibile perché, dopo tutto, è un terrorista”. Fin qui Levy.

Un popolo imprigionato. 

Un popolo imprigionato

Il 17 aprile si celebra la Giornata Internazionale di Solidarietà con i Prigionieri Palestinesi. Di loro si è tornato a parlare seguendo la battaglia del giornalista Al-Qeeq, che ha scelto, insieme a tanti altri prigionieri politici palestinesi, lo sciopero della fame come forma di protesta pacifica contro forme di detenzione ingiustificate da un punto di vista del diritto internazionale e lesive della dignità umana. Detenzioni che si accompagnano, infatti, ad interrogatori violenti a cui vengono sottoposti perfino i bambini, e a torture intollerabili che hanno lo scopo di spegnere qualsiasi tipo di resistenza, anche solo psicologica, al regime di occupazione. Dopo l’occupazione israeliana della Cisgiordania nel 1967 – ha ricordato in occasione del 17 aprile l’ambasciata di Palestina in Italia –  i palestinesi accusati di reati in base alla legge militare israeliana e giudicati nei tribunali militari sono stati più di 800.000: tale cifra costituisce circa il 20 per cento del numero totale di palestinesi che abitano nei Territori Palestinesi Occupati (TPO), ovvero il 40% della popolazione maschile totale.

A seguito delle rivolte iniziate negli ultimi mesi del 2015 e che proseguono nel 2016, i prigionieri palestinesi sono in continuo aumento. Al primo marzo 2016 i prigionieri nelle carceri israeliane erano 7000, tra i quali: 700 prigionieri in detenzione amministrativa, 440 bambini (di cui 98 sotto i 16 anni), 68 donne, 6 membri del Consiglio Nazionale Palestinese (CNP), 343 prigionieri dalla Striscia di Gaza –  spesso arrestati al valico di Erez, malati, quando rientravano dopo avuto il permesso di cura in Israele, 70 prigionieri dei territori occupati nel ’48, cioè Israele, 450 cittadini di Gerusalemme Est, e 458 condannati a vita. I prigionieri sono distribuiti in circa 17 prigioni, tutte, tranne una – il carcere di Ofer – all’interno di Israele, in violazione dell’Art. 76 della quarta Convenzione di Ginevra, per cui le forze di occupazione non possono trasferire i detenuti nel proprio territorio. La conseguenza pratica di questo sistema è che molti detenuti hanno difficoltà ad incontrarsi con i loro difensori palestinesi e a ricevere visite dai familiari perché ai loro parenti vengono spesso negati, per “motivi di sicurezza”, i permessi per entrare in Israele.

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Israele è l’unico Paese al mondo dove i bambini palestinesi – e solo quelli palestinesi – vengono sistematicamente giudicati da tribunali militari, passando per trattamenti disumani.  Ogni anno vengono arrestati e processati in questi tribunali tra i 500 e i 700 minorenni. Ad oggi, sono più di 400 i ragazzi detenuti in condizioni disastrose nelle prigioni israeliane di Ofer e Mejido.

Nel corso degli ultimi 5 anni, Israele ha nettamente intensificato le detenzioni arbitrarie dei bambini palestinesi e il 2015, in particolare, ha visto il più alto trend di arresti, ben 2.179, specialmente durante gli ultimi tre mesi dell’anno, quando ne sono stati detenuti 1.500. Lo scorso mese di marzo, invece, dei 647 palestinesi arrestati in Cisgiordania e a Gaza, i ragazzi erano 126.

Di solito – prosegue il report – questi giovani vengono catturati ai posti di blocco o nel cuore della notte, ammanettati e bendati, per essere poi condotti, in un uno dei centri per gli interrogatori presenti in Israele.

Secondo un recente rapporto di Amnesty International, Dopo l’occupazione israeliana della Cisgiordania nel 1967, i palestinesi accusati di reati in base alla legge militare israeliana e giudicati nei tribunali militari sono stati più di 800.000: tale cifra costituisce circa il 20 % del numero totale di palestinesi che abitano nei Territori Palestinesi Occupati (TPO), ovvero il 40% della popolazione maschile totale.

La denuncia di Save the Children

160 bambini palestinesi stanno vivendo una situazione drammatica, si trovano in prigione in attesa di interrogatorio. Soli, inascoltati, esposti ad enormi rischi a cui ora si aggiunge anche il coronavirus – documenta Save The Children in un recente Rapporto -Ancora oggi circa 500-700 bambini Palestinesi della Cisgiordania vengono processati e detenuti secondo la legge militare israeliana, ogni anno. Sono gli unici bambini al mondo ad essere sistematicamente processati da tribunali militari, con processi iniqui, arresti violenti, spesso notturni e interrogatori coercitivi. L’accusa più comune è il lancio di pietre, per cui si può arrivare ad una pena di 20 anni. 
In prigione sono sottoposti ad abusi emotivi e fisici, l’assistenza sanitaria e il sostegno psicosociale sono per loro molto limitati e con l’emergenzacoronavirusla loro situazione si è ulteriormente aggravata. Al momento, quasi 160 bambini si trovano nelle carceri militari israeliane, in attesa di processo o condanna. 
Da marzo 2020, con l’inizio della pandemia, a questi bambini è impedito di ricevere visite dai propri genitori e parenti. Non possono neanche incontrare i loro avvocati e quindi anche il supporto legale è minimo.

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Questa situazione crea ulteriori difficoltà e sofferenze per i bambini e li rende vulnerabili a possibili violazioni, inclusa la pressione ad autoincriminarsi. Senza dimenticare il concreto rischio di contrarre il Covid19 a causa della mancanza di spazio nelle celle e dell’accesso minimo che hanno ai servizi igienici.
Il coronavirus infatti ha già raggiunto le carceri israeliane dove sono detenuti i bambini, dove sono stati registrati diversi casi.

Abusati, le testimonianze

Ala è stato arrestato mentre andava a scuola durante degli scontri. Colpito da proiettili di gomma e ferito al piede e alla testa ha subito prima un interrogatorio di 5 giorni e solo dopo è stato visitato da un medico. Dopo aver trascorso alcuni giorni in ospedale per le ferite riportate è stato trasferito in prigione. Ha dovuto dividere una cella di circa 20 metri quadri con altri 9 ragazzi, alcuni anche molto più piccoli di lui. La paura del Coronavirus era tanta e i ragazzi provavano a mantenere pulito questo spazio angusto in cui erano costretti, ma senza disinfettanti e con le guardie che entravano continuamente nelle celle, spesso con i cani, era praticamente impossibile. Ora Ala è stato per fortuna rilasciato ma teme fortemente per gli altri ragazzi che sono ancora in carcere. Lui ha vissuto fino a poco temo fa in quella situazione e sa che il pericolo di ammalarsi è reale.

Un altro minore (Ubay Mohammad Odeh, minore dei territori occupati di Gerusalemme) è stato arrestato mentre andava a scuola con taxi, è stato fermato per un controllo di documenti. I soldati gli hanno detto che la carta di identità non andava bene, e lo hanno portato via coprendogli la testa con un cappuccio, in un campo di detenzione. É stato spogliato nudo e messo in isolamento, dopo essere stato interrogato, nella sezione degli adulti. È rimasto così per 22 gg. in una cella umida e piena di topi. Durante i trasferimenti per gli interrogatori ha subito continue aggressioni da parte dei militari che lo accusavano di avere picchiato un giudice. 
Abdul-Salam Abu Al-Hayjah (16 anni del campo profughi di Jenin) è stato esposto a gravi torture, per costringerlo a dire dove è nascosto suo padre. Nel suo interrogatorio hanno minacciato di uccidere il padre e di deportare la sua famiglia. É obbligato a stare per lunghi periodi in piedi, senza vestiti. Gli è impedito di fare una doccia, e chi lo interroga lo minaccia che non rivedrà più la luce del sole finchè non avrà dato tutte le informazioni che gli sono richieste. 
Altri minori hanno denunciato una guardia che aveva tentato in più occasioni di violentare qualcuno di loro. La guardia è stata arrestata e condannata a tre anni di prigione. I minori, sono stati brutalmente percossi mentre venivano portati dalla prigione al Tribunale, e si trovavano nelle mani delle guardie. 

Domanda afinale gli ultras filoisraeliani del belpaese: anche Save the Children è nemica dello Stato ebraico?

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