Ilva: dall'indifferenza ai tumori, storia di una disfatta sociale
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Ilva: dall'indifferenza ai tumori, storia di una disfatta sociale

La classe medica dovrebbe riappropriarsi del ruolo che aveva all’inizio del '900. Quando era l'argine a difesa della salute della popolazione più povera [Mario Riccio]

Ilva: dall'indifferenza ai tumori, storia di una disfatta sociale
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14 Luglio 2013 - 19.04


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Il 29 ottobre 2012 il medico Mario Riccio criticava su [url”Babylon Post”]http://babylonpost.globalist.it/Detail_News_Display?ID=39205&typeb=0&Ilva-dall-indifferenza-ai-tumori-storia-di-una-disfatta-sociale[/url] l’ambiguità dell’allora ministro della Salute Balduzzi riguardo i dati sulla mortalità nell’area Ilva. Paventando i rischi di una lettura superficiale delle statistiche, invero inequivocabili, Riccio scriveva: «Si potrebbe addirittura anche sostenere che i cittadini di Taranto abbiano assunto improvvisamente stili di vita dannosi, come un aumento del consumo di tabacco o di bevande alcoliche. Tutte tesi che sicuramente non mancheranno di essere sostenute». [url”Oggi “]http://www.globalist.it/Detail_News_Display?ID=46743&typeb=0&Bondi-sui-tumori-colpa-del-fumo-non-dell%27Ilva[/url]il commissario dell’Ilva, Enrico Bondi, chiude il cerchio.

Alla fine, anche il sempre assai prudente ministro della Salute Balduzzi si è detto sorpreso e preoccupato per la situazione sanitaria a Taranto alla luce della vicenda Ilva. D’altronde ha dovuto prendere atto dei risultati del rapporto “Sentieri” sull’aumento della mortalità nell’area Ilva degli ultimi anni redatto dall’Istituto superiore di sanità. I numeri, che peraltro circolavano da tempo, sono impressionanti e ci dicono che in quelle zone ci si ammala e si muore molto di più che in altre aree omogenee del territorio limitrofo, oltre che nel confronto nazionale. Ma è l’analisi dei dati che permette altre riflessioni. L’aumento della mortalità per patologie cardiocircolatorie e in parte per patologie respiratorie potrebbe – con una operazione assai imprecisa – essere attribuito a una esposizione a inquinanti ambientali generici o addirittura a stili di vita. Ossia, si potrebbe anche sostenere che i tarantini abbiano subito un aumento dell’inquinamento derivato dal traffico automobilistico. Oppure che inverni eccezionalmente più freddi abbiano portato a un maggiore uso del riscaldamento e relativo inquinamento dell’aria. Condizioni meteorologiche sfavorevoli, persistenti negli anni, avrebbero poi potuto causare scarsa ventilazione dell’aria, aggravando così l’inquinamento atmosferico. Si potrebbe addirittura anche sostenere che i cittadini di Taranto abbiano assunto improvvisamente stili di vita dannosi, come un aumento del consumo di tabacco o di bevande alcoliche, per giustificare l’aumento della mortalità legata alle patologie sia respiratorie in generale che cardiocircolatorie. Tutte tesi che sicuramente non mancheranno di essere sostenute – come in parte già sta avvenendo – dai difensori dell’Ilva di Taranto. È noto che l’imputato non sia tenuto a dire la verità, ma i consulenti di parte dovranno comunque provare, dati alla mano, le loro affermazioni.
Ma vi sono dei numeri che riguardano mortalità derivanti da patologie troppo specifiche per poter essere contestati. L’aumento dei tumori delle vie urinarie, così come quelli della vescica testimoniano inconfutabilmente che la fabbrica tarantina ha causato quelle morti. Infatti in questi due casi la eziologia principale – se non esclusiva – della malattia è l’esposizione diretta e ripetuta a tutte quelle sostanze chimiche che vengono prodotte quali forme di scarto del ciclo produttivo dell’Ilva. Ma vi è un altro tipo di tumore che trova la sua esclusiva eziologia da un prodotto derivato (l’amianto) del ciclo industriale dell’Ilva: il mesotelioma pleurico. Per questa patologia irrimediabilmente mortale, le percentuali tarantine sono ancor più impressionanti. Aumento del 200 per cento del mesotelioma nelle donne e del 400 per cento negli uomini.

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Questi numeri non sono però spuntati da un giorno con l’altro come i funghi. È un trend in salita da spalmare quanto meno sugli ultimi dieci anni. È chiaro che la magistratura si occuperà anche di valutare in questo senso chi aveva specifiche responsabilità di vigilare e agire. Ma questi cittadini, che fossero lavoratori o meno dell’Ilva, si saranno certamente rivolti ai loro medici curanti in tutti questi anni. Sicuramente qualche ospedale del territorio li avrà avuti in cura all’insorgere della patologia. Oggi ovviamente il problema è ormai chiaro. Ma in questo ultimo decennio, già all’inizio dell’incremento numerico dei casi si sarebbe potuto lanciare un allarme da parte del mondo sanitario locale. Episodi isolati di segnalazioni ve ne sono stati. Alcuni addirittura sono arrivati all’attenzione anche dei politici nazionali, senza peraltro risposta. Ma non vi è stata una iniziativa ufficiale di organizzazioni sanitarie.

La classe medica dovrebbe riappropriarsi di quel ruolo sociale che, almeno in apparenza, aveva all’inizio del secolo scorso. Quando il medico era visto anche come un argine a difesa della salute della popolazione più povera. Ed era proprio questa fascia di popolazione che si ammalava maggiormente a causa delle scarse condizioni igieniche, della scadente e povera alimentazione, delle pesanti condizioni lavorative che fin da allora causavano gravi malattie professionali. Malattie di cui all’inizio non era conosciuta la precisa eziologia, ma che risultava con evidenza legata all’ambiente lavorativo. Il tutto ben rappresentato nel romanzo La Cittadella dell’inglese Cronin. Ma a differenza della storia del solitario medico inglese, oggi quel ruolo sociale nell’interesse della comunità, non può più essere affidato al singolo operatore sanitario. Ma dovrebbe essere svolto da quelle organizzazioni che non possono esaurire i loro compiti nella sola rappresentazione e difesa degli interessi – per lo più – corporativi della classe medica. Inoltre l’inquinamento ambientale dovrebbe suscitare l’interesse di tutta la popolazione. Ma nella realtà tarantina è nei quartieri più vicini alla fabbrica, cioè quelli che ospitano in maggioranza la forza lavoro dell’Ilva, che si osservano i maggiori incrementi di patologie. Tanto che il ministro dell’ambiente Clini ha ammesso, lapalissianamente, che lui, in quelle zone, non ci andrebbe a vivere.

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Mario Riccio, medico

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