Cercare lavoro nella giungla anglofona: ma è sempre gratis
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Cercare lavoro nella giungla anglofona: ma è sempre gratis

Cercando un lavoro, tra trafficker e Unit Client Solutions. Ruoli che in italiano esistevano, a pagamento. Ma qui alla fine, zac! Appare lo stage. Quindi aggratisse.

Cercare lavoro nella giungla anglofona: ma è sempre gratis
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22 Novembre 2015 - 19.52


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di Francesca Zappa

Cerco lavoro. Spulcio da qualche tempo le richieste che piovono dal mercato oscuro. E leggo continuamente che cercano un Trafficker, che nel mio cuore semplice appare come trafficante, accendendo una miriade di significati che affiorano nelle mie visioni antiche della vita: di organi, di droga, di uomini. Invece immagino che si riferisca alla traduzione più commerciale: bottegaio, ossia venditore. Quindi cercano un venditore. Ma anche un Senior financial controller, un controllore finanziario senior. Senior? Anziano, con esperienza? No, sinior! Ah, va bene. E anche
Sales account
,
District manager
, e
Client director
, tutti ruoli a Milano, Salerno, Torino, Treviso, mica a Birmingham. Eppure è così. Sono spariti i venditori, i direttori, gli impiegati, gli addetti. Non esistono le soluzioni, gli uffici, i reparti. Viviamo in una dimensione in inglese che fa fighetto, confonde le acque, rende la vita peggiore.

Leggo questa stupenda richiesta: “Ricerchiamo un account motivato ad inserirsi nella unit “Client Solutions” con un’esperienza nel ruolo di product manager in azienda oppure account in agenzia, con la gestione diretta di campagne di direct marketing”. Su venti parole, articoli esclusi, nove in inglese. Poi la Unit Client Solutions la trovo divina.

Mi sono chiesta il perché. Ed è semplice la risposta. Non si tratta di purismi della lingua o di linguaggio che muta, come insegnerebbe sapientemente Tullio De Mauro; non si tratta di lingua viva in metamorfosi, ma di altro. Scrive Lello Voce in un pezzo sull’influenza anglofona sulla lingua:

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“Ciò che sta accadendo ultimamente è, indiscutibilmente, inquietante. È evidente che in molti casi ciò che agisce in questo pletorizzarsi di prestiti e calchi anglofoni, non è solo pigrizia linguistica, la debolezza di una lingua ormai ridotta ai suoi minimi termini, ma l’assuefazione allo strapotere di una lingua veicolare, l’inglese, da sempre, come tutte le lingue veicolari, latino in primis, linguisticamente ‘imperialista’. O anche (spessissimo) la volontà di usare la lingua non per dire, ma per tacere, non per esplicare, quanto per celare”.

Com’è vero. Infatti nel 90% dei casi, dietro la cortina fumogena anglofona appare una parolina in francese, che usano anche gli inglesi: stage. Tristemente nota e assai comprensibile anche in italiano senza neanche la spiegazione: period or step in a process or development. Gratis.

Capisco che parlare della propria circumnavigazione linguistica è poco appetibile per i lettori, ma dopo aver fatto una scansione (scannerizzato?) del terreno sul quale si muove lo jobs act (daje), mi sono resa conto che il linguaggio oscuro per i più, nasconde verità chiarissime per questa giostra finanziario-politica del niente. E allora, per non sentirmi da sola una scema in questa giungla di furbi, cito il Gruppo Incipit presso l’Accademia della Crusca, gruppo che si è formato dopo la petizione delle 70.000 firme raccolte da “#Dilloinitaliano” e dopo il convegno fiorentino del 23-24 febbraio 2015 su La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi (di cui sono usciti gli atti in forma di e-book). Due prese di posizione, contro hotspot e contro voluntary disclosure. Ve le sottopongo.

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Il gruppo “Incipit” prende posizione contro l’uso del termine “Hot spots” per indicare i futuri Centri di identificazione dei migranti che entrano nell’UE, e invita ad adoperare il corrispondente italiano. Infatti il termine inglese, per quanto ora adottato nell’inglese burocratico dell’UE, ha già altre connessioni semantiche assolutamente diverse che si sovrappongono pericolosamente al presunto senso nuovo (ad es. “punto di connessione Wi-Fi”, “locale alla moda”, per non considerare i vari impieghi italiani di “hot” in contesti ludici, sessuali e alimentari) occultandone il reale significato, serio e drammatico per la vita delle persone che entreranno in questi Centri. “Hot spots” nella nuova accezione risulta offensivo, elusivo rispetto alla realtà, dunque politicamente scorretto.

E per voluntary disclosure.

Il nuovo anglismo esaminato è “voluntary disclosure”, un forestierismo crudo e oscuro, di difficile pronuncia per la maggior parte degli italiani, a meno che non li si pretenda anglofoni fin dalla culla. Si tratta di un termine inadatto alla trasparenza della vita civile, in una nazione amica dei suoi cittadini. Questo termine, che indica l’operazione con cui si dichiarano al fisco capitali indebitamente detenuti all’estero, dovrebbe essere risolutamente abbandonato, secondo il parere del gruppo Incipit, a vantaggio di collaborazione volontaria, espressione italiana chiarissima e adatta allo scopo, già usata dalla legge 2014/186 e dall’Agenzia delle entrate.

[url”Questo è il pezzo di Lello Voce”] http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/11/13/accademia-della-crusca-dilloinitaliano-tra-neo-purismi-e-voglia-demigrare-in-unaltra-lingua/2212357/ [/url] dal quale ho tratto una citazione e un po’ di ispirazione a scrivere.
Io per conto mio continuerò a cercare di non farmi imporre lavori aggratisse e semplificazioni del pensiero in una lingua che non appartiene alla mia cultura e alla mia tradizione. Se scriverò racconti sarò una narratrice, se li leggerò con una chitarra in mano sarò una cantastorie, se scriverò un romanzo una scrittrice, mai storyteller e mai quindi storytelling.

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