Oggi uno degli ultimi testimoni diretti della lotta partigiana, Mario Fiorentini, compie cento anni. Ho conosciuto quest’uomo straordinario diversi anni fa, quando mi fece dono della sua calda amicizia con naturalezza ed affetto disarmanti, malgrado la notevole differenza d’età. Ho trascorso interi pomeriggi ad ascoltare dalla sua voce pacata eppure trascinante le memorie dei tanti incontri con donne e uomini di rilievo, i racconti avventurosi illuminati dal sorriso caloroso, dagli occhi azzurri dolci e intelligenti; a girovagare con lui per piazze e vicoli del centro di Roma, dove mi indicava i luoghi teatro delle azioni militari messe a segno dai partigiani nei tremendi mesi dell’occupazione nazista. Racconti mai enfatizzati, mai ammantati di inutile retorica, neanche quello della spettacolare fuga sui tetti con cui riuscì a sgusciare tra le ferree maglie del rastrellamento degli ebrei, il 16 ottobre del 1943. Ricordi d’una vita romanzesca, densa di eventi e conoscenze epocali, condotta con estrema tensione morale e spesa sempre per gli altri.
Mario ha vissuto almeno tre esistenze distinte. La prima, antecedente all’occupazione nazista, è quella che chiama “la stagione della cultura”, quando ancorché giovane fu un effervescente animatore della scena culturale romana, assiduo frequentatore delle serate di cinema a Palazzo Braschi, dei concerti di musica classica all’Augusteo, degli artisti di Via Margutta e Villa Strohl Fern, dove si riunivano gli esponenti di quella che passò alla storia come la Scuola Romana di pittura. Di artisti ne conobbe tanti: Renato Guttuso, Giorgio Caproni, Sandro Penna e numerosi altri. Di alcuni fu intimo amico: Carlo Lizzani, Vasco Pratolini, Emilio Vedova, Giulio Turcato, con i quali condividerà l’esperienza resistenziale. Con Plinio De Martiis allestì delle rappresentazioni teatrali al Teatro Mazzini e al Delle Arti, cui parteciparono attori poi entrati nel gotha dell’arte della recitazione, come Vittorio Gassman, Vittorio Caprioli, Alberto Bonucci, Lea Padovani, Ave Ninchi, diretti da Luigi Squarzina, Adolfo Celi, Mario Landi: la crema del giovane teatro italiano dell’epoca.
Poi anche Roma fu investita dal ciclone della guerra. Con l’occupazione nazista nel settembre del 1943 in Mario avvenne la prima metamorfosi: il pacifico giovane amante dell’arte e della matematica si trasformò in guerriero. Il 9 e il 10 settembre di quel tragico anno lo studente Fiorentini partecipò alla battaglia di Porta San Paolo, unendosi ad altri volontari e alle truppe sbandate del Regio esercito, lasciate senza ordini dalla fuga del re e della sua corte, del capo del governo e dei vertici miliari. Quindi, insieme alla futura moglie, la giovanissima Lucia Ottobrini (donna altrettanto straordinaria, scomparsa nel 2015), entrò nei Gap (Gruppi di azione patriottica), con il nome di battaglia di Giovanni, partecipando a numerose azioni di guerra e ideando con altri l’attentato di via Rasella.
I Gap romani operavano in due reti, dirette da Carlo Salinari e da Franco Calamandrei, poste inizialmente sotto il comando di Antonello Trombadori, che rispondeva a Giorgio Amendola, componente del Comando generale delle Brigate Garibaldi. Tra i compagni di battaglia di Mario figuravano, tra gli altri, Rosario Bentivegna, Carla Capponi, Maria Teresa Regard, Alfredo Reichlin, Franco Ferri, Roberto Forti, Francesco Curreli, Marisa Musu, Valentino Gerratana: di questa pasta era la gioventù dell’epoca. Mario mi ha più volte raccontato le ragioni della scelta armata: “Vedevamo sfilare le truppe della Wermacht per le nostre amate strade, gli sguardi gelidi e carichi d’odio di quei soldati, i modi sprezzanti e violenti con cui trattavano la popolazione civile. Fu uno shock. Ci sentivamo oltraggiati, eravamo giovani e pieni di ideali, non potevamo rimanere con le mani in mano. Ci fu subito chiaro che solo combattendo potevamo riscattare noi stessi e il nostro Paese.”
Dopo la liberazione di Roma, a partire dal luglio del 1944 Fiorentini fu posto al comando della missione “Dingo”, organizzata dall’Office of Strategic Services (OSS, il servizio segreto statunitense operante durante la seconda guerra mondiale), fu paracadutato in Val Trebbia e proseguì l’attività di resistente nel Nord Italia. Gli americani gli affidarono il compito di catturare Mussolini vivo, finché, gravemente ferito, dovette riparare in Svizzera. Ancora oggi è un suo cruccio non essere riuscito nell’impresa: “Volevo che Mussolini fosse processato. Non ne avrebbero fatto un martire, con la sua morte.”
Poi, finalmente, la guerra terminò. Oltre alle ferite, Fiorentini si portava dietro l’esperienza delle carceri fasciste, in cui finì quattro volte, e da cui riuscì a fuggire con spettacolari evasioni. Ma anche in questo caso i suoi racconti sono all’insegna dell’understatement: “Sono un avanzo di galera”, ama ripetere con gustosa autoironia.
E così, nell’Italia ridotta in macerie, il pluridecorato Mario Fiorentini (tre medaglie d’argento al valor militare, una Croce al merito di guerra, altre cinque onorificenze conferitegli dagli alleati che lo rendono “il partigiano più medagliato d’Italia”) impalmò l’adorata Lucia (“Il vestito da sposa era fatto con il tessuto del paracadute che mi ero portato dietro”, mi racconta con le lacrime agli occhi), si rimboccò le maniche e partendo come molti da zero si lanciò con il consueto entusiasmo nella terza fase della sua vita, forse la più ricca di soddisfazioni, per quanto non priva di dolorosi lutti. Con la brillante intelligenza e il carattere volitivo di cui è dotato dette seguito alla passione che lo anima da sempre (nata con la precoce lettura di un libro sulla matematica euclidea), e ormai quarantaduenne, da autodidatta, si laureò in matematica. Quindi tentò il concorso per l’insegnamento universitario, e inopinatamente lo vinse, pur non avendo dietro alcun “barone”, come mi racconta con comprensibile fierezza, iniziando una prestigiosa carriera accademica. Sotto la sua guida il Dipartimento di matematica di Ferrara, dove insegnava geometria algebrica, divenne un rinomato centro di ricerca di livello internazionale. L’amata Ferrara non la lasciò neanche dietro le lusinghe del governo polacco, che gli offrì una cattedra in una università di sua scelta. Poi giunse il tempo della pensione, e Mario, uomo d’azione fermamente convinto del valore della cultura e dell’educazione, si è da allora dedicato a fecondare la curiosità dei bambini, a diffondere nelle scuole l’amore per la matematica, a scrivere libri, a ideare aforismi arguti e ad assecondare la passione di bibliofilo. Questo splendido capitolo non si è ancora concluso: all’età di cento anni Mario ha appena pubblicato un nuovo libro sull’amata matematica: “Zero uno infinito. Divertimenti per la mente”, scritto con il divulgatore scientifico Ennio Peres. E altri ne progetta. Ditemi dunque se non siamo al cospetto di un uomo straordinario.
Ai miei occhi però Mario Fiorentini non è soltanto ammirevole per quel che ha fatto nella sua lunga vita, ma soprattutto per come l’ha condotta: con semplicità e generosità, nel nome della cultura e della lotta alla barbarie, nell’assoluta aderenza agli ideali di tolleranza, libertà, democrazia. Persona altruista che stima l’amicizia come uno dei più alti valori, sempre pronta a condividere il suo sapere, i suoi accesi entusiasmi, questo intellettuale-guerrigliero-studioso è dotato di un’energia vitale, di una curiosità e di un’umanità trascinanti. Un uomo che malgrado l’inferno attraversato ha conservato una gioia di vivere e un’innocenza commoventi.
Credo che questo nostro sciagurato Paese, oggi così malridotto e imbarbarito, debba gioire per avere generato un figlio di tale levatura, maestro non soltanto per i suoi cari, ma per noi tutti, nella pace come nella guerra. Auguri, Mario, e che il tuo esempio ci illumini in questi tempi gravidi di minacce, ci sia di aiuto per costruire un mondo migliore. D’altra parte, mio prezioso amico, è proprio quel che hai fatto con le donne e gli uomini della tua generazione, sconfiggendo ben altri orrori.