Nell’anno 1630 a Milano si sviluppa una terribile epidemia di peste, e tra la popolazione si diffonde il panico, e come spesso accade in presenza di calamità che seminano dolore e morte, i milanesi si convincono che due loro concittadini stanno diffondendo il terribile morbo, attraverso riti e pratiche misteriose. Ed è così che Gian Giacomo Mora, di professione barbiere e Guglielmo Piazza, cardatore, vengono accusati di essere untori, cioè propagatori della peste. Dopo averli torturati a lungo li costringono a una confessione che determina la loro condanna a morte nell’agosto di quell’anno terribile.
Oggi non crediamo che ci siano alchimisti che diffondono il bacillo della peste attraverso un unguento che viene spalmato sui muri delle città, perché il nostro modo di contrastare le malattie è guidato dallo spirito scientifico, ma sopravvive in ciascuno di noi la tentazione della ricerca del capro espiatorio, se è vero che l’arresto di un giovane che non aveva rispettato l’obbligo della quarantena, da parte delle forze dell’ordine ha scatenato un’ondata giustizialista sui social, nella quale gli haters hanno invocato misure drastiche come la morte immediata, l’amputazione delle gambe, la detenzione a vita, ed altre punizioni esemplari.
Ogni peste ha i suoi fantasmi, paure irrazionali che hanno bisogno di un capro espiatorio, che deve essere sacrificato affinché la comunità venga liberata dal male, ma non sempre le vittime prescelte sono colpevoli.
Prima che la rabbia popolare esiga corpi da immolare ciascuno di noi, anche nella sua condizione di prigioniero, tenga ben chiuse nelle segrete della propria anima il demone della violenza purificatrice
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