“Io vedevo degli astronauti entrare nella mia stanza d’ospedale. Potrei incontrare per strada il medico che mi ha salvato la vita e non lo riconoscerei”.
A parlare è Luca Paladini, 50 anni, blogger e attivista milanese. Si è ammalato di Covid-19 insieme alla sua famiglia: suo padre e sua madre.
La madre di Luca è stata la “paziente zero” della famiglia: si recava in ospedale per le cure di chemio ma era asintomatica, così passa il virus al marito, 84 anni, verso fine marzo.
Il padre comincia ad avvertire i sintomi da coronavirus: febbre, difficoltà respiratorie e si reca all’Ospedale di Sesto San Giovanni dove viene dimesso dopo 7 ore, senza tampone, con una diagnosi che rileva una “semplice” bronchite.
Dopo due giorni il padre di Luca torna all’ospedale San Carlo di Milano con sintomi più gravi e questa volta gli esami riportano una polmonite bilaterale e la positività al Covid-19. Di conseguenza viene fatto il tampone al resto della famiglia, la moglie e il figlio, alla prima viene dato il risultato di positività dopo 3 minuti, Luca dovrà aspettare.
Le condizioni del padre di Luca peggiorano vertiginosamente: “Signor Paladini, suo padre ha avuto un collasso ai polmoni è questione di ore”. E gli viene data la possibilità di salutarlo, un’ultima volta, per telefono con una videochiamata.
Luca non sa cosa fare, dire la verità alla madre? Comunicarle che il suo amore di una vita se ne stava andando e poteva salutarlo solamente in maniera virtuale?
Luca decide per la cruda verità e chiamano il padre: la telefonata è confusa, il padre non è lucido e i “ti voglio bene” di Luca e la madre sono strappati dalle lacrime e dai groppi in gola.
Nel frattempo arriva il responso del tampone di Luca: negativo. Lui e la madre tornano a casa, preoccupati che a breve arriverà la notizia della morte del padre.
Per fortuna la chiamata non arriva e non arriverà mai, ma Luca inizia ad avvertire gli stati febbrili il mattino successivo. Lui non si preoccupa, l’importante è che il padre non sia in pericolo di vita. Un uomo immunodepresso di 84 anni, con leucemia cronica, meravigliosamente è in via di guarigione.
Luca torna in ospedale con la febbre che non cala: effettua nuovamente il tampone e risulta nuovamente negativo, anche l’ecografia conferma l’estraneità al virus.
Un medico solerte decide comunque di fare una tac, a questo punto emerge la presenza di una polmonite.
Un terzo tampone conferma la positività al coronavirus e viene ricoverato al San Carlo. I primi giorni li trascorre in terapia sub- intensiva e passa le notti con il casco per respirare e la febbre con temperatura superiore ai 39 gradi.
“Ho avuto paura di morire. Ero spaventato da tutti quei non so dei medici”. I dottori pensano di fargli firmare il consenso per l’intubazione, poi comincia la terapia con un farmaco sperimentale e la sua condizione migliora.
Nella stanza di Luca arriva un paziente di 41 anni grave, a lui viene fatta subito firmare la liberatoria per l’intubazione. Luca intanto è lucido e cosciente di ciò che gli succede attorno.
L’uomo di 41 anni, un giorno scambiando due chiacchiere con Luca gli dice: “Promettimi che ci rivediamo”. Purtroppo Luca non potrà mantenere la promessa perché non vedrà più il suo “compagno” di ospedale.
Luca adesso è stato dimesso e si trova in isolamento in attesa del tampone che dichiari definitivamente la negatività. Il padre è stato un guerriero e ce l’ha fatta ma essendo immunodepresso risulta ancora positivo e verrà messo in una struttura riabilitativa. Luoghi che oggi fanno paura perché possono far nascere dei focolai.
La madre, positiva e asintomatica, non si sottopone alle cure di chemio da 45 giorni: la chemio immunodeprime un corpo e se hai un virus rischi di risvegliarlo.
Luca si batteva e continua a battersi per i diritti civili. La sua storia l’ha voluta rendere pubblica per far capire cosa significa questa malattia, e che non è uno scherzo.
L’emergenza non è finita e i cittadini devono essere responsabili per il lavoro degli ospedali, per la comunità e per Luca.