«Come vescovo di Roma ho deciso di istituire nella diocesi il Fondo “Gesù Divino Lavoratore”, per richiamare la dignità del lavoro, con uno stanziamento iniziale di 1 milione di euro alla nostra Caritas diocesana.»
Questa recente decisione di Francesco, assunta per contribuire a mitigare gli effetti della pandemia sui lavoratori capitolini, è stata giustamente ripresa da molti giornali per il suo significato evidente. Fa riferimento a una figura, “Gesù Divino Lavoratore”, o “Gesù Lavoratore”, che però non è molto nota. Ora della storia di Gesù lavoratore, della sua statua, e di numerose chiese a lui intestate si occupa un bell’articolo di padre Antonio Spadaro e Simone Sereni, sull’ultimo numero de La Civiltà Cattolica.
E’ un articolo che ci fa rivivere il clima degli anni Cinquanta, anni difficili, di contrapposizione e anche di rigidità per la Chiesa di allora, la Chiesa che ancora non aveva vissuto il Concilio Vaticano II. Si parte dal 1955, decennale della fondazione delle Acli – le Associazioni cristiane dei lavoratori italiani – e si racconta: “ papa Pio XII istituisce la festa liturgica di San Giuseppe artigiano, assegnando ad essa il giorno 1° maggio. Così, il «Primo maggio cristiano» viene celebrato per la prima volta nel 1956. I lavoratori cattolici iscritti alle Acli organizzano in quella circostanza un imponente raduno in piazza Duomo a Milano. In quella occasione La Civiltà Cattolica ha pubblicato una cronaca, che qui trascriviamo: «Il 1° maggio, festa del lavoro e solennità liturgica di san Giuseppe artigiano, il Santo Padre, disceso nella basilica vaticana per l’udienza generale, rivolse uno speciale radiomessaggio ai più di centomila aclisti riuniti in Milano per il Convegno internazionale. […] Sull’imbrunire di quel giorno, alla presenza di gran folla, un elicottero discese sul ripiano della gradinata di S. Pietro, per deporvi un’artistica immagine di Cristo lavoratore, giunta poco prima in aereo da Milano. Anche in quest’occasione il Pontefice volle unirsi alla gioia dei suoi figli, mostrandosi benedicente alla finestra del suo studio privato. Il simulacro di bronzo dorato, alto m. 1,30 e poggiato su una base riproducente lo stemma delle Acli, sarà collocato nella nuova chiesa di Cristo divino lavoratore, in Roma; intanto venne presentato al Santo Padre, il 2 maggio, nel corso di un’udienza accordata ad un gruppo di lavoratori di sette nazioni.»
Dunque la statua raffigura “Cristo lavoratore”, o “Cristo divino lavoratore”. Va bene, ma la ricostruzione deve proseguire, entrare nel racconto interno di quel fatto certamente rilevante: “La verità è che le Acli avrebbero voluto ottenere la consacrazione a «Gesù lavoratore» anche per la Festa del 1° maggio, e già in occasione di quel decennale del 1955. Padre Aurelio Boschini, vice assistente centrale delle Acli, testimonia che questa possibilità era stata scartata da papa Pacelli per l’ostilità del Santo Uffizio, che giudicava l’ipotesi troppo «classista». Per quanto riguarda poi nello specifico la statua, uno dei motivi di imbarazzo era forse il fatto che essa era destinata alla chiesa romana intitolata a Gesù Divino Lavoratore, progettata da Raffaello Fagnoni. E nel 1951 era stato stabilito dal Sant’Uffizio che Gesù lavoratore non fosse mai rappresentato da solo, ma inquadrato nel suo contesto familiare con Maria e Giuseppe, «mirabili esempi di lavoro».”
Dunque c’era una chiara preoccupazione; occorreva stare attenti al possibile uso “classista”. E Gesù lavoratore doveva essere rappresentato nel suo contesto familiare, mai da solo, come risulta chiaro invece nel caso della statua. Dunque torniamo al racconto, a cos’altro successe… Successe che, ci ricordano padre Antonio Spadaro e Simone Sereni, “ le Acli si adoperarono perché venisse riconosciuto «Cristo lavoratore» l’anno successivo, il 1956, in occasione della Festa internazionale dei lavoratori del 1° maggio, della quale abbiamo già fatto cenno. Mons. Giovanni Battista Montini, divenuto nel frattempo arcivescovo di Milano e tra i più convinti promotori della nascita delle Acli, benedì la statua del «Gesù divino lavoratore» in bronzo dorato, realizzata da Enrico Nell Breuning.
La statua partì da piazza Duomo in elicottero per arrivare sul sagrato della basilica di San Pietro, accolta proprio da Pio XII, affacciato alla finestra del suo appartamento.”
Gli autori riproducono le cronache di quella duplice cerimonia, la partenza da una Milano festante e l’arrivo a Piazza San Pietro. E poi? Ecco qui: “La statua fu portata il giorno dopo dinanzi al Papa, nell’udienza concessa alla delegazione del Convegno internazionale guidata dal presidente Penazzato e dall’assistente ecclesiastico centrale, mons. Luigi Civardi. Papa Pacelli, vista la statua, esclamò: «Bello questo S. Giuseppe artigiano!». Mons. Civardi cercò di interloquire, dicendo: «Ma Padre Santo, è Gesù Divino Lavoratore». Il Papa guardò Civardi, guardò i membri della delegazione e rivelò la posizione del Santo Uffizio, concludendo: «Sì, ecco, Divino Lavoratore può essere accettato.»
Il particolare colpisce perché molti vescovi legati alle Acli avevano già intestato numerose chiese a “Gesù Divino Lavoratore” proprio in previsione dell’evento di inizio maggio 1956. E infatti è decisivo questo passaggio dell’articolo: “Interessante, dunque, la storia di una statua che nasce come «Gesù lavoratore» e diventa di «san Giuseppe artigiano». Se accettiamo il fatto che ci fosse resistenza nell’identificare Gesù come «lavoratore», perché definizione «classista», dobbiamo pure considerare che comunque la devozione popolare ha tenuto viva la memoria di Gesù che lavora. Ed è a quella devozione che oggi Francesco si riconnette, dandole vivacità, di fatto, e restituendole un senso forte. Gesù lavoratore è immagine che indica l’immersione di Dio nelle vicende umane, una incarnazione che accompagna l’azione dell’uomo e della donna che costruiscono il mondo.”
E’ questo il punto che interessa per l’oggi. Il rapporto tra Chiesa e storia, cioè vita, persone, esseri umani in carne ed ossa, sofferenze e speranze, attese e timori. Non ideologie, schieramenti, prudenze o vicinanze a schemi più a che a persone vere. Dunque non siamo a una diversa scelta ”ideologica”, no. Siamo a qualcosa d’altro, siamo all’empatia con loro, i poveri, e si direbbe una scelta prettamente evangelica. Per riuscirci bisogna però dismettere tutti gli schemi rigidi (non uno solo) e infatti tanto il Bergoglio argentino quanto il Francesco vaticano hanno spesso ricordato che bisogna lasciare Dio libero di sorprenderci e quindi rifiutare un pensiero rigido, chiuso, definitivo. La grandezza del Concilio Vaticano II in fin dei conti è questa, e Francesco ne è un interprete che non ha paura del suo significato pieno. Così è molto importante ricordare, come fa l’articolo, che negli anni successivi ebbe luogo una mostra dedicata alle opere su “Gesù lavoratore” realizzate non da artisti, ma dai lavoratori.
Scrive Civiltà Cattolica: “Furono presentate 450 opere. Presidente del comitato d’onore era l’on. Aldo Moro, all’epoca ministro della Pubblica istruzione. Il catalogo della mostra riportava la seguente dedica introduttiva: «La mostra su Gesù lavoratore è idealmente dedicata a tutti i lavoratori italiani che affrontano le asperità e le angustie della fatica quotidiana in conformità di sentimenti con Cristo divino lavoratore».” Asperità, angustie… La “novità” Francesco ha qui le sue radici.
Avere la serenità per rileggere senza veli il passato è una forza che consente di guardare con la necessaria incompletezza di pensiero al futuro.