Tra Beatrice, guelfi e ghibellini Barbero racconta la vita di Dante
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Tra Beatrice, guelfi e ghibellini Barbero racconta la vita di Dante

Lo storico e ormai star della tv disegna il ritratto di un’epoca, della Firenze tra ‘200 e ‘300, delle lotte e della posizione sociale del poeta

Henry James Holiday, Dante, 1875, part. (collezione privata c/o Christie’s), in mostra a Forlì dall’1 all’11 luglio
Henry James Holiday, Dante, 1875, part. (collezione privata c/o Christie’s), in mostra a Forlì dall’1 all’11 luglio
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9 Marzo 2021 - 17.05


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di Antonio Salvati

L’ultima fatica del professor Alessandro Barbero, con un titolo decisamente perentorio, Dante (Laterza 2020, pp. 361, € 20,00), è un libro utile perché avvicina i lettori in modo graduale, con uno stile accattivante, alla storia personale avvincente di Dante Alighieri. In occasione dell’anniversario dei 700 anni dalla morte del Sommo Poeta, il volume dello storico medievista torinese – scritto come fosse un romanzo con un linguaggio semplice e diretto – era decisamente atteso dal grande pubblico, visto ch’è ormai anche una star della tv per le sue indiscusse abilità narrative.

Attraverso l’analisi dei documenti esistenti (pochi e ancora non rosi dai topi) e delle sue opere letterarie arriviamo a conoscere molti tratti della storia umana di Dante (molti dei quali noti solo agli esperti), in particolar modo attraverso la comprensione dei complessi meccanismi che dominavano la società fiorentina tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento. Firenze era una città che per l’epoca era immensa: «coi suoi 100.000 abitanti era una delle più grandi metropoli d’Europa. I suoi mercanti operavano in tutte le città del mondo cristiano, e i suoi banchieri gestivano le finanze del papa, cioè della più colossale organizzazione multinazionale esistente al mondo. I profitti erano vertiginosi, gli arricchimenti velocissimi, la mobilità sociale più importante che in qualsiasi altro luogo, e tuttavia tra i fiorentini l’avidità, l’invidia e la paura anziché placarsi diventavano sempre più feroci, avvelenando la convivenza collettiva».
Una città in continuo cambiamento tra alleanze e guerre con Comuni limitrofi, le innumerevoli vicende che vedono protagonisti guelfi (bianchi e neri) e influenze ghibelline, gli interessi economici dei grandi Magnati contro quelli del popolo, prestiti di denari, usurai e la diffusione di nuovi status come quello di “addobbamento” a cavalieri. Pertanto, non un volume sugli scritti di Dante, ma soprattutto sulle complicazioni dei contrasti dell’Italia dei guelfi e dei ghibellini con le loro spaccature così violente, quasi senza margini di rimedio e margini possibili. 

Di queste dispute Dante ne è stato protagonista, ne era immerso fino al collo perché uomo di partito. Dante negli anni novanta del XIII secolo fece politica a Firenze ad altissimo livello, facendo parte delle magistrature più importanti. Firenze è guelfa da tanto tempo, in tanti guadagnavano molti soldi. Gli schieramenti politici erano tutt’altro che immutabili, ideologici, compatti. Anche nelle vicende politiche dell’epoca, tra guelfi e ghibellini, c’erano continuamente travasi (voltagabbana), contatti e cambiamenti di fronte, tradimenti. Tutte vicende che Dante ha vissuto da vicino, da protagonista, anche dopo la condanna all’esilio del 1302.

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Su youtube è possibile visualizzare innumerevoli lezioni tenute da Barbero su vicende appartenenti a diversi periodi storici: dall’antichità romana alla disfatta di Caporetto. È decisamente un bravo narratore nato e, soprattutto ama raccontare. Riesce abilmente ad intrattenere i lettori, in particolar modo su aspetti particolari. In questo volume racconta magistralmente la battaglia di Campaldino alla quale Dante partecipò. Inoltre, si sofferma sulle sue frustrazioni giovanili di aspirante a una vita aristocratica alla quale la sua nascita familiare lo avrebbe destinato, sulle storie dei suoi avi e dei suoi parenti non proprio ragguardevoli (il padre, il nonno e gli zii di Dante erano usurai), sui suoi innamoramenti, sulle “compagnie malvage e scempie” e, infine, sulla condanna (forse) ingiusta e le pene dell’esilio.

Per raccontare chi era Dante bisogna porre innanzitutto il problema, fondamentale, della sua posizione sociale. Il suo non è un nome antico, non risulta nell’elenco delle antiche famiglie nobiliari, lui è “Durante filio di Aleghiero”. “Gli Alighieri” erano rispettabili, ma non nobili. Rispettabili perché avevano un cognome, una famiglia identificata con un cognome.  Infatti, all’epoca, e ancora per diversi secoli, in Toscana un uomo del popolo era conosciuto col proprio nome e il nome del padre. Sappiamo che ha combattuto a Campaldino come feditore a cavallo, ossia tra i nobili, che partivano al primo assalto. Spiega Barbero che fuori dai confini italiani, «quelli che combattevano a cavallo erano tutti nobili, cioè membri di famiglie che si trasmettevano di padre in figlio la terra, i contadini, il potere di comando, e l’ideologia cavalleresca del coraggio, del cameratismo e della fedeltà».

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Ma in Italia le cose erano più complicate. Anche nei comuni italiani la popolazione si divideva fra quelli che combattevano a cavallo, i milites, e tutti gli altri, che combattevano a piedi, i pedites. E anche in Italia «l’addobbamento cavalleresco garantiva ammirazione, rispetto e privilegi, fra cui appunto il diritto a essere chiamato dominus, in volgare messere, che nelle nostre fiction è usato a sproposito come se fosse un appellativo universale, e che invece era riservato ai cavalieri, ai dottori in legge e ai dignitari ecclesiastici». Ma in Italia non c’era un re a imporre per legge che la cavalleria fosse riservata ai membri di certe famiglie, creando così una nobiltà giuridicamente chiusa. In conclusione sulla condizione sociale di Dante sappiamo che venne scelto come uno dei centocinquanta “feditori de’ migliori dell’oste”: «che era bene armato, e aveva un buon cavallo, e dunque era abbastanza ricco, oltre che giovane, robusto e allenato; ma continuiamo a non sapere se la sua famiglia era gentile, e dunque ricca e potente da generazioni, o se era venuta su da poco». 

Ma cosa pensa Dante della nobiltà? Dante nel corso della sua vita ha espresso idee contraddittorie circa la nobiltà, ossia l’importanza di avere degli antenati. Idee diverse a seconda del periodo, a seconda che stesse affrontando la questione in termini teorici, oppure parlando molto concretamente di sé e della propria famiglia. Negli anni in cui fa politica a Firenze Dante scrive la canzone Le dolci rime, che pochi anni dopo, in esilio, commenta nel libro del Convivio, dove sostiene chiaramente che la nobiltà di sangue non esiste. Essere nobili significa essere nati con la predisposizione alla virtù, alla pietà, alla misericordia, al valore, e questo è un dono che appartiene ai singoli individui, non alle famiglie. Va sottolineato che Dante era abbastanza ricco. Infatti, possedeva svariati poderi e case, come rilevano gli Atti notarili in cui si attesta che i suoi eredi riscattano questi beni negli anni successivi al suo esilio.

Alla moglie Gemma, Dante non ha dedicato nessuna opera, tanto che sappiamo di lei solo attraverso documenti notarili con i quali la donna, rimasta sola in città dopo l’esilio del marito, chiede al Comune di poter ottenere la rendita spettante dai suoi beni dotali. Com’è noto di Beatrice, invece, sappiamo da opere come La Vita Nuova fino alla Commedia. Tutti sanno che Dante rimase per tutta la sua vita legato, anche se platonicamente, a Beatrice Portinari. Lo ammette lui stesso di averlo coltivato per anni da quando aveva nove anni senza aver mai scambiato con Beatrice neanche una parola

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Nei primi anni di esilio egli prova a tornare in città, ma i tempi e le vicende non lo permettono e allora si allontana definitivamente. I vari soggiorni – racconta Barbero – sono difficili da ricostruire: molto probabilmente Lucca e Bologna, ma quelli più lunghi e meglio documentati sono presso il signore ghibellino Cangrande della Scala a Verona e presso il guelfo Guido Novello da Polenta a Ravenna. Sono anni non facili per Dante; un tempo cittadino di un Comune e “uomo politico”, ora è costretto a vivere stipendiato da signori feudali, sentendosi un servo («Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e ’l salir per l’altrui scale»). Tuttavia, malgrado versi poco lusinghieri scritti negli anni precedenti contro i suoi generosi protettori apprezzano la sua grandezza intellettuale e lo mantengono negli ultimi anni di vita. Grazie ad essi, vengono “collocati” in modo onorevole i figli di Dante: Jacopo (canonico a Verona), Piero (notaio e primo critico delle opere del padre) e Beatrice (suora a Santo Stefano in Ravenna).

Nel mese di settembre 1321, «Dante dev’essere morto nelle prime ore della notte tra il 13 e 14. Quella notte, il profeta andò a scoprire se quanto aveva immaginato in tutti quegli anni era vero».

Il dipinto nella foto su Dante è di Henry James Holiday (Londra, 1839 –1927) del 1875  e sarà esposto nella mostra “Dante. La visione dell’arte” nei Musei San Domenico di Forlì dall’1 aprile all’11 luglio organizzata dalle Gallerie degli Uffizi e dalla Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì

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