Che cosa c’entra Ho Chi Min con la ricostruzione che il direttore della Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, ha fatto delle scelte operate da papa Francesco in merito alla guerra in Ucraina in un lungo e importantissimo saggio appena pubblicato su La Civiltà Cattolica? C’entra eccome.
Quando scoppiò la guerra d’Algeria i giovani algerini guardarono a lui, a Ho Chi Min e alla sua vittoriosa lotta contro il colonialismo francese, la guerra d’Indocina. Parte integrante della Francia da prima di Nizza e Savoia, l’Algeria nel 1954 vide proprio in Ho Chi Min l’esempio per dire basta e il primo novembre di quell’anno i francesi si svegliarono con il fragore di tante esplosioni algerine. La sconfitta francese di Dien Ben Phu risaliva a pochi mesi prima.
Nel paese nordafricano si erano installati due milioni di piedi neri, cioè di cittadini nati in Europa, francesi, chiamati così perché portavano le scarpe, a differenza degli indigeni. Terra ideale per sperimentazioni nucleari nei deserti e per giacimenti petroliferi, l’Algeria era il luogo d’elezione per l’esercizio della “missione civilizzatrice” della grande nazione francese. Bisognerà attendere il 1962 perché il generale De Gaulle riconosca la realtà ponendo la parola fine all’occupazione e al conflitto. Gli algerini che oggi vivono o vanno a vivere a Parigi o a Marsiglia che piedi hanno?
Riassumere tutto questo non può essere fatto senza tener conto della forza di Ho Chi Min: piaccia o non piaccia fu quell’uomo così lontano ed esotico per gli algerini a incarnare la molla che ha consentito di cambiare la storia, una storia la loro che poi verrà tradita dal Fronte di Liberazione Nazionale, ma questa è un’altra storia.
Oggi padre Antonio Spadaro sa guardare al conflitto ucraino con le lenti dell’uomo attento alla storia, alle forze che la muovono e di questa guerra, la guerra in Ucraina, scrive “ la Russia, se la «vincesse», potrebbe perderla esattamente il giorno successivo, trovandosi a gestire un imbarazzante «dopo», cioè l’inaccettabile occupazione di una terra molto vasta e molto popolata. Come la Francia nella guerra d’Algeria tra il 1954 e il 1962, e anzi molto di più. Parliamo di un conflitto che sin dall’inizio sembra non aver fatto i conti con una resistenza eroica dell’aggredito, supportata dalla mobilitazione di molti Paesi, e con una difficoltà oggettiva sul campo”.
Perché dei molti esempi possibili ha scelto proprio quello algerino? Io ovviamente non lo so, ma credo perché consapevole che quella guerra Parigi non solo l’ha persa senza pensarlo possibile per lunghissimi anni di massacri feroci e indiscriminati, ma anche perché quella guerra ha cambiato la storia, ponendo termine alla favola coloniale. Chi vede “missioni civilizzatrici” tra dune e oliveti mediterranei? Inglesi, francesi? Loro stessi hanno rinunciato anche a sussurrare la parola “missione”, per non dire della pretesa di unirla a “civilizzatrice”.
Proprio questa rinuncia ci porta all’altro volto della questione posta da Putin con l’invasione dell’Ucraina. Qui l’Ho Chi Min evocato in precedenza sembra proprio essere Gorbaciov in questo caso, l’uomo che ha posto termine all’idea imperiale sovietica nel nome di ateismo e deterrenza nucleare. Da quel giorno i popoli si sono sentiti liberi di scegliere il loro cammino, e complici i gravissimi errori soprattutto in campo economico dell’Occidente è nato un capitalismo di rapina che ha creato i nuovi oligarchi sulla miseria popolare. Questo disastro oligarchico, favorito dalla cupida cecità occidentale, ha spinto o invogliato Putin a tornare sul cammino imperiale, con l’idea di “mondo russo”.
E i popoli? E l’autodeterminazione? E’ qui che emerge l’altro passaggio fortissimo e chiarissimo del saggio di padre Spadaro, che fotografa la risposta putiniana al declino e le sfide che comporta: “Vivo è rimasto il timore di uno spostamento intellettuale e ideo- logico di pezzi dell’impero – il «mondo russo» – verso l’Occidente e i suoi valori, movimento considerato inammissibile. La rivolta ucraina di piazza Maidan del febbraio 2014 è stata intesa dai russi come parte di questo spaesamento. L’unica vera riserva dell’immaginario della desiderata egemonia politica e culturale russa resta la grande tradizione spirituale cristiano-ortodossa, dalla quale la visione imperiale aveva tratto linfa vitale. Era il 18 marzo quando il presidente Putin si è presentato allo stadio Luzhniki di Mosca per fare un bagno di applausi e pronunciare un breve discorso. Un cambio di retorica rispetto all’immagine algida e distante che egli ha dato in questo conflitto, fino a porre sette metri di distanza nei colloqui con alcuni suoi interlocutori internazionali.
Il 18 marzo 2022 era l’ottavo anniversario dell’annessione della Crimea, ma soprattutto la data di nascita di Fëdor Fëdorovič Ušakov, uno storico e invitto ammiraglio dell’era zarista proclamato santo dalla Chiesa ortodossa russa nel 2001.
Chiaro il significato simbolico: la guerra in corso sarebbe sotto la protezione di un santo guerriero, il quale, tra l’altro, nel 2005 fu dichiarato patrono dei bombardieri nucleari. Allora la mente torna al 2007, quando Putin, in una conferenza stampa, disse: «Sia la fede tradizionale della Federazione russa sia lo scudo nucleare della Russia sono due cose che rafforzano la statualità russa e creano le condizioni necessarie per garantire la sicurezza in- terna ed esterna del Paese». Fede cristiana e bombe nucleari appaiono tragicamente connesse a servizio dello Stato e della sua «sicurezza». A inizio marzo, il patriarca di Mosca Kirill aveva parlato di questa invasione come di «una lotta che non ha un significato fisico, ma metafisico». Ha proiettato così l’offesa bellica di natura politica sullo scenario di una lotta apocalittica, uno scontro finale tra bene e male. La divinità così rischia di essere la proiezione ideale del potere costituito. La nazione è il «popolo eletto», e la fede stessa lo contrappone a chi non gli appartiene, cioè al «nemico» e al dissidente. L’appello militare all’apocalisse giustifica sempre il potere voluto da un dio. Esso è proprio, ad esempio, dello jihadismo, ma anche delle forme di suprematismo neo-crociato viste di recente negli Stati Uniti. In un successivo intervento, il Patriarca ha negato l’aggressione russa in Ucraina: «Non vogliamo combattere nessuno.
La Russia non ha mai attaccato nessuno. È sorprendente che un Paese grande e potente non abbia mai attaccato nessuno, abbia solo difeso i suoi confini». D’altra parte, non era lontano da questo schema teo-politico il presidente ucraino Petro Poroshenko, in carica dal giugno 2014 al maggio 2019, quando lanciava lo slogan «Esercito, lingua e fede». Nel dicembre 2018, il giorno dell’elezione di Epifanio a primate della nuova Chiesa ortodossa ucraina autocefala, nella cattedrale di Santa Sofia a Poroshenko fu riservata la cattedra «imperiale» accanto all’altare. Era avviato il motore religioso dell’autocoscienza nazionale. Quattro giorni dopo, Michael Pompeo, segretario di Stato statunitense, si congratulava con gli ucraini, sottolineando come fosse necessario garantire la loro libertà religiosa «senza influenze esterne».”
Siamo al punto cruciale del saggio, che dobbiamo cogliere da soli, senza chiedere a chi ci disvela i fatti di capirli anche per contro nostro. Qui si vede infatti nei due grandi polmoni del pensiero religioso contemporaneo il rischio di un incontro nel nome nome dell’odio. Un’abbraccio apocalittico. Il potere politico, interessato ad avesser legittimato e magari sacralizzato, aiuta la diffusione di concezioni ideologico-religiose sia negli Stati Uniti sia in Russia sia nell’Islam che per sacralizzare l’uno devono demonizzare i suoi avversari. Tutti e tre questi pensieri, magari detestandosi, si propongono come avamposto in terra del Regno di Dio (per usare un linguaggio cristiano), facendo del potere politico che sostengono o incarnano una sorta di ultimo avversario dell’Anticristo. Il mondo allora è raffigurato in bianco e nero: da una parte ci sono i figli delle tenebre, dall’altra i figli della luce. La rappresentazione è pressoché apocalittica. E’ quello che ha detto, se ci pensa bene, il patriarca di Mosca, Kirill, affermando che la guerra non è fisica, ma metafisica. Cioè si decide dei destini ultimi dell’umanità.
Ecco allora che appare trasparire un messaggio profonfo dal saggio, che riguarda il “che fare”. Siamo davvero convinti che convenga cadere in questo tranello? Siamo sicuri che per rifiutarsi di sacralizzare il potere politico occorra demonizzare chi lo propone? Qui Spadaro apre uno scenario davvero importante per valutare e riflettere bene: “L’approccio del Pontefice si fonda sulla certezza che non si dà a questo mondo l’impero del bene. Perciò bisogna dialogare con tutti, proprio tutti. Ricordiamo, per esempio, che Francesco lo ha fatto persino con il generale Min Aung Hlaing, capo dell’esercito del Myanmar, responsabile delle operazioni contro i suoi amati Rohingya. Il potere mondano è così definitivamente de-sacralizzato. E proprio per questo nessuno è il demonio incarnato”. E’ così che si vince la triplice sfida. Non dicendo a chi si crede figlio della luce “no, tu sei figlio delle tenebre”!!!!!!!!!!!!!!! Occorre sottrarsi a questa logica, non capovolgerla, e non perché la si accetti in parte, ma perché la si rifiuta in radice!
Guardando al conflitto a me sembra evidente che il pericolo più grave lo prospetti Putin con la sua sostituzione dell’ateismo di Stato con il fondamentalismo di Stato. Accarezzarlo è mortale, ma anche non vedere i terminali che lo rispecchiano è mortale. Se non si capisce si rischia di sbattere e Spadaro ci fa capire bene: “Il Papa ha sempre resistito alla fascinazione di fare del cristianesimo una garanzia politica, qualunque essa sia. Egli sottrae il cristianesimo alla tentazione di rimanere erede dell’Impero romano o di quello di Bisanzio. Questa tentazione dai tratti nazionalistici appare a volte irresistibile: proiettare quegli imperi in qualsiasi alleanza militare dei buoni contro i cattivi. Potestas politica e auctoritas spirituale vanno sempre ben distinte: questa è la forza dell’universalità del cattolicesimo. L’abito bianco del pontefice riporta il cristianesimo a Cristo, il quale davanti a chi voleva difenderlo con la spada urlò: «Basta!», due volte. Francesco non indossa neanche più il rosso, colore imperiale ed espressione dell’imitatio imperii del vescovo di Roma. La tragedia ucraina è dunque anche una tragedia cristiana. E proprio per questo è necessario tenere ben aperta la porta del dialogo ecumenico, per incidere sul futuro politico di una riconciliazione tra due popoli, molto lontana quanto necessaria”.
Il dibattito come lo conosciamo sui media su questa guerra è fuori centro, questo articolo, che contiene molti altri spunti che qui non si potevano citare tutti, ci aiuta a cambiare prospettiva, per non morire di incansapevolezza mentre ci si illude di costrirsene una, sommersi da slogan.
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