Abbattere un cinghiale matriarca è come dire a tutte altre femmine del branco di predisporsi da subito a procreare in sua vece, facendo crescere la famiglia del gruppo di appartenenza. Come spiega su Agi.it Vincenzo Castellano è una predisposizione etologica di questa specie: sostituire subito chi è venuto a mancare, e mettendosi a disposizione dei maschi per divenire gravide di futuri cinghiali è la mossa per eccellenza che la specie ha studiato per non estinguersi.
È la constatazione che ormai da anni e anni gli animalisti e ambientalisti hanno acquisito e cercano in tutti i modi di far presente a chi ha potere decisionale in merito alle campagne di abbattimento selettivo, quello che nasce come finalizzato al contenimento numerico degli esemplari.
Si pensava di limitarne il numero con questa pratica, e invece in 30 anni, da quando c’è, i cinghiali in libertà sono aumentati in numero. Per le associazioni animaliste la spiegazione è semplice: quella pratica non è efficace, perché in realtà i cinghiali appena sentono ‘odore’ di polvere da sparo o latrare furioso dei cani si disperdono, scappano in più direzioni, sfondano confini, reti metalliche, e così vanno a prolificare altrove, allargando il campo d’azione e di presenza.
Se poi ci si aggiungono elementi come i bidoni colmi di spazzatura e non a chiusura ermetica, il cerchio è chiuso.
L’ultimo rapporto Ispra (Istituto superiore per la protezione ambientale) sulla gestione del cinghiale in Italia nel periodo 2015-2021 e reso noto solo pochi giorni fa ci dice che in quell’arco di anni il prelievo di cinghiale è aumentato del 45% e in media sono stati abbattuti circa 300.000 cinghiali all’anno (di cui 257.000 in caccia ordinaria e 42.000 in interventi di controllo faunistico).
Ma nello stesso periodo, gli importi annuali dei danni all’agricoltura sono oscillati tra 14,6 e 18,7 milioni di euro, con una media annuale pari a oltre 17 milioni di euro. Il che vuol dire più ungulati in circolazione. Dati che Ispra ha elaborato sulla base delle informazioni fornite dalle Regioni e dalle Aree protette e che l’Istituto ha comunicato ai ministri dell’Ambiente e dell’Agricoltura.
La consultazione di oltre 700 documenti e relazioni tecniche ha permesso, per la prima volta, di raccogliere i dati quantitativi indispensabili per fotografare in modo realistico l’andamento della gestione del cinghiale negli ultimi sette anni su tutto il territorio nazionale. E con ogni probabilità se si disponesse di un sistema omogeneo di raccolta dei dati a scala nazionale si disporrebbe di numeri ancor più elevati.
Ad ogni modo è stato possibile mettere in piedi una banca dati utilizzata per le analisi, attraverso le informazioni contenute nei “Piani regionali di interventi urgenti per la gestione, il controllo e l’eradicazione della peste suina africana”, elaborati nel 2022 da tutte le Regioni e Province autonome in risposta all’arrivo del virus in Italia.
E sulla base dei numeri disponibili sui cinghiali prelevati e dei parametri reperibili nella letteratura scientifica, per l’Ispra è plausibile una consistenza al 2021 di almeno un milione e mezzo di animali. Nei sette anni dello studio, l’86% degli abbattimenti di cinghiale (circa 1,8 milioni di animali) è avvenuto in attività di caccia ordinaria e il restante 14% (circa 295.000 animali) in attività di controllo faunistico. Il 30% del prelievo totale (circa 630mila animali) è stato realizzato in Toscana e sono sette le regioni che hanno prelevato oltre un milione di animali nel periodo 2015- 2021 (Toscana, Emilia-Romagna, Piemonte, Lazio, Umbria, Liguria e Marche), per un complessivo 73% del prelievo totale.