Sergio Zavoli, il narratore di mezzo secolo di storia d'Italia
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Sergio Zavoli, il narratore di mezzo secolo di storia d'Italia

Riceviamo e rilanciamo l'intervista esclusiva al Radiocorriere Tv di Sergio Zavoli su Rai, servizio pubblico, inchieste e talk show.

Sergio Zavoli, il narratore di mezzo secolo di storia d'Italia
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20 Gennaio 2014 - 16.47


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di Stefano Corradino

Prima della tv le uniche fonti d’informazione di massa erano radio e cinema. Poi, 60 anni fa nacque la Rai. In che modo la nascita della televisione pubblica modificò la comunicazione e di conseguenza la società? L’arguta risposta la da Sergio Zavoli, come premessa in una intervista esclusiva al Radiocorriere Tv che Articolo 21 rilancia: “Allo stesso modo in cui i caratteri di stampa, il telescopio, la dinamite, il cemento armato, il petrolio, l’atomo, il genoma hanno cambiato il volto e il destino dell’umanità!”.

Testimone e narratore di mezzo secolo di storia d’Italia, Zavoli in Rai è stato giornalista, direttore, presidente, e più di recente, alla guida della Commissione parlamentare di Vigilanza. “Il principe del giornalismo televisivo”, secondo la definizione di Indro Montanelli.

La tv come “servizio pubblico” venne pensata non solo come occasione di “intrattenimento”, ma anche come strumento di “educazione e informazione” per combattere l’ignoranza derivante dal diffuso analfabetismo. Quanto fu importante quel ruolo per la Rai? Oggi che il Paese è ovviamente assai più alfabetizzato il Servizio pubblico ha esaurito la sua “missione educatrice” o ce n’è ancora bisogno?

Quelle che richiama sono le prime, grandi benemerenze della Rai. Ha aperto la strada all’alfabetizzazione, ha dato agli italiani una lingua comune, ha promosso la vicinanza tra popolo e Paese, ha favorito la crescita e le qualità della vita sociale, culturale, economica, imprimendo sui fatti il segno, per la verità non sempre esemplare, della modernità. E oggi sta vincendo una bella battaglia con l’articolata strategia del “digitale terrestre”, senza togliere nulla alla produzione generalista.

Nel 1989 lei condusse “La notte della Repubblica”, che resta il programma antesignano dell’inchiesta giornalistica in Tv con i suoi approfondimenti sugli anni bui del terrorismo e delle stragi. Oggi, a 25 anni di distanza, quanto è importante l’inchiesta giornalistica nel Servizio pubblico?

“La Notte della Repubblica” nacque dal semplice voler fare il nostro mestiere. Certo, ci favorirono le idee e l’emotività che l’argomento suscitava, le passioni civili e politiche, le reazioni etiche e spirituali. Restava la difficoltà di spiegare una “rivoluzione senza popolo”, atroce nella sua risolutezza. L’inchiesta trovò l’incentivo per trarne, tra repertori, ricostruzioni, analisi e dibattiti, quasi cinquanta ore di televisione. Un film-inchiesta ha vinto il Leone d’oro, a Venezia, sempre più spesso nascono laboratori e si tengono seminari per coltivare un linguaggio che non dev’essere solo, per così dire, di scuola, ma pronto a intervenire con le sue inconfondibili risorse.


Quando e come iniziò la sua presidenza della Rai?

Ricordo, quando nel 1980, alle prese con il mio primo Cda, avvertii un disagio e persino un allarme nell’Azienda, preoccupata dal veder nascere la concorrenza. Venivamo dai latifondi ideologici, poi dai compromessi della lottizzazione, infine stava salendo il progetto di una forma pluralista della politica riassunta in “impresa privata incaricata di Servizio pubblico”.
Il mercato stava diventando una risorsa del Paese, occorreva solo confrontarsi, distinguendo la “nostra” dalla televisione “altrui”, non assumendo le forme, e meno ancora gli interessi, di una televisione commerciale seppure di rango. Invece, per paura di perdere ascolto, anziché dar forza e identità ulteriori al nostro modello ci fu uno strisciante appiattimento sulle modalità e il linguaggio della concorrenza. E’ occorso del tempo per ritrovare la tonalità di un Servizio pubblico a lungo distratto da nuove, strumentali lusinghe.
E qui torno alla sua domanda sul ruolo di un’informazione d’inchiesta e vado con naturalezza a vari esempi, tra cui il più esplicito è quello offerto da “Report”. Non a caso un giornalismo di documento e testimonianza è rimasto, specie nei Paesi anglosassoni, un punto fermo della comunicazione televisiva.

Che opinione si è fatto dei talk show? Sono o no compatibili con l’inchiesta?

Ritengo che da noi, ma non ho la verità in tasca, il ricorso ai talk show abbia arricchito l’informazione. Sostituendo però la ricerca e l’analisi con il dibattito, è venuta meno la rilevanza delle inchieste che oggi trovano sporadiche aperture nei nostri palinsesti.
Non rinuncerei insomma, drasticamente, ai talk show, li farei vivere insieme con una comunicazione che analizza i fatti istruendo dal vero una forma di scandaglio più vasto e profondo.
A questo proposito, tempo fa scrissi due righe che non dovrebbero essere dispiaciute a Michele Santoro, se le ha lette. Era andato in onda un suo forte, rigoroso racconto del mondo dei camionisti. Concludevo oracolando: “Un pezzo da Prix Italia!”. Non per anteporlo al dibattito e alle sue necessità, ma perché rappresentava, esemplarmente, la complessiva utilità di anticipare, come metodo non solo mediatico, le cause agli effetti.

Nel 2016 scade il contratto di servizio. Alla Rai serve una nuova “Carta d’identità”? È auspicabile una rinnovata governance che liberi il Servizio pubblico dal condizionamento di governi e partiti? La privatizzazione è una strada percorribile o la Rai deve rimanere “bene comune”?

La Rai non è la divisa, né la livrea, né l’abito da sera, ma nemmeno quello per sfaccendare, della nostra Tv. E’ di più, è il Servizio pubblico. Lo paghiamo con un canone il cui senso richiede di protrarre l’identità di uno strumento, la Tv, che il Nobel indiano Amartya Sen ha dichiarato essere diventato “efficace” quanto l’economia, se non di più. Quella d’oggi, credo intendesse.

Infine, dopo una relazione così lunga con l’Azienda nella veste di giornalista, direttore, presidente, e poi alla guida della Commissione parlamentare di Vigilanza della Rai, cosa si augura per il futuro del servizio pubblico?

Mi auguro che una futura ingegneria e sociologia aziendale non generi scenari suggestivi che inducano solo all’intelligenza pratica del “giorno per giorno”, espressione sodale del conformismo e primo socio del compromesso. Meglio sarebbe un ragionevole rapporto con una politica non politicante che rispondesse, nello spirito di una reciproca responsabilità, al problema di sostenere un’Italia che parla e confronta, s’interroga e vuol sapere, registra e interpreta, ma soprattutto rifiuta e sceglie in nome di un comune futuro.

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