Giornalismo in agonia, ma per Iacopino il nemico è il sindacato
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Giornalismo in agonia, ma per Iacopino il nemico è il sindacato

Che Iacopino scelga come primo nemico la Fnsi è una follia. Ma dividere serve al presidente per mantenersi in sella e per allontanare la riforma dell'Ordine.

Oreste Pivetta
Oreste Pivetta
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16 Luglio 2014 - 23.22


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Abbiamo tutti letto nei giorni scorsi alcuni numeri che ci riguardano (numeri proposti dalla Agcom, l’autorità per le garanzie nelle comunicazioni), numeri che documentano quanto probabilmente già sapevamo: l’editoria, quotidiana e periodica, ha perso nel 2013 quasi 700 milioni di ricavi, il fatturato dei quotidiani è sceso del 7 per cento, quello dei periodici il 17,2 per cento, i ricavi dei quotidiani passano da 2,5 miliardi del 2012 a 2,3 miliardi del 2013, eccetera eccetera.

La crisi dell’editoria non si ferma.

La crisi di un sistema non arretra, si mostra in tutta la sua asprezza, non risparmia nessuno. Il conto completo lo si dovrebbe fare sommando cassa integrazione, “solidarietà”, prepensionamenti, chiusure, fallimenti. Anche in questo caso abbiamo tutti già letto tutto o quasi.

Le polemiche sul contratto e la riforma dell’Ordine.

Mentre attorno a noi il mondo dell’informazione traballa (il mondo intero traballa) e intravvede il precipizio, a Roma hanno firmato un contratto di lavoro, il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti ha avviato una procedura che dovrebbe condurre ad un ricorso al Tar contro gli accordi a proposito di equo compenso, lo stesso Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti ha approvato a stretta maggioranza (61 voti a favore, 51 contro, cinque schede bianche) le linee guide di un progetto di riforma, augurandosi che prima o poi il Parlamento trovi il tempo e la voglia per occuparsi della questione e per metter mano a una legge che di anni ne ha superati cinquanta (legge n.69/ 1963).

Non mi sento di discutere di un contratto che ha già suscitato tante polemiche e tante divisioni: credo che sia comunque meno nero dell’orizzonte cupo che ci sta di fronte e temo che, se il disastro è quello documentato dai dati e illustrato dall’esperienza comune, ci penseranno i tempi funesti a mandare in briciole quel poco di buono e l’eventuale molto di cattivo che il contratto contiene.

L’assalto alla baionetta di Iacopino alla Fnsi.

Mi ha colpito invece, seguendo da consigliere nazionale i tre giorni del consiglio a Roma e avendo qui e là letto in precedenza esternazioni dei più alti dirigenti, l’assalto alla baionetta nei confronti del sindacato, cioè della Federazione nazionale della stampa, colpevole, secondo i portabandiera della causa del giornalismo italiano, d’aver calato le brache in tema di equo compenso.

La lezione di Richler:”Scegli il tuo nemico”
Mi è capitato più volte di citare Mordechai Richler, lo scrittore canadese autore del celeberrimo “La versione di Barney”, per mesi tormentone quotidiano del Foglio di Giuliano Ferrara, che ha sempre ignorato invece un romanzo assai più bello, “A Choice of Enemies”. Ho sempre considerato quel titolo nella versione italiana del romanzo, “Scegli il tuo nemico” (editore e/o), una sorta di guida all’azione, forse il primo comandamento da rispettare in politica con scrupolo, pena l’isolamento, quindi la solitudine, quindi la sconfitta.

E la follia della guerra nella categoria in crisi.

Che l’Ordine dei giornalisti scegliesse come primo nemico il sindacato (unitario, per giunta) dei giornalisti mi è sembrata una follia, che potrebbe nascondere chissà quali intrugli, e non tanto per il merito in sé dell’eventuale ricorso al Tar (le cui conseguenze concrete giungeranno quando forse non esisteremo neppure più), ma per l’immagine di rottura offerta ai tanti nemici dei giornalisti, in politica e fuori dalla politica nel mare sempre più largo del qualunquismo e dell’incultura nazionali.

Dividere per (non) governare.

Evidentemente il presidente dell’Ordine è solido nella convinzione che dividere lo aiuti a comandare. Ma gli antichi romani per comandare dividevano i barbari d’allora, oltre i confini. Iacopino ama invece dividere il suo fronte, quel fronte che dovrebbe vedere uniti tutti i giornalisti italiani, e invece di costruire ponti alza le sue macchine da guerra (di cartapesta, naturalmente), utilizzando la truppa che di volta in volta gli è consentito, prima i precari, poi i pubblicisti di una corrente, poi i pubblicisti di quell’altra o i professionisti in ansia di carriera e via degradando.

Così resta in sella e si allontana la riforma.

L’unità evidentemente lo spaventa, le alleanze le concepisce solo segrete in funzione di chissà quale simpatico scambio di cortesie. Come capita anche nelle migliori assemblee, anche nel Consiglio dell’Ordine un posto in una commissione, in un comitato, in un gruppo di lavoro può sempre valere una manciata di voti.

La prova di una idiosincrasia iacopiniana nei confronti di qualsiasi possibile forma di “concertazione” la si è valutata lungo il percorso di queste benedette linee di riforma dell’Ordine (linee di riforma, ripetiamo per chiarezza, e niente altro, un suggerimento soltanto al legislatore, dal momento che l’Ordine dei giornalisti malgrado un esercito di centocinquanta consiglieri non può darsi una riforma che è legge dello stato), formulate una volta e approvate con due soli voti di scarto, riformulate da un gruppo di lavoro costituito dal presidente Iacopino senza rispetto delle indicazioni della minoranza, e di nuovo approvate con una maggioranza assai esigua.

Le linee guida di chi non vuole cambiare nulla.

Il testo alla fine è debole in ragione di quel voto che certifica la divisione del Consiglio, debole perché è un passo incerto frutto di piccoli aggiustamenti, per cambiare qualcosa lasciando molto come prima: albo unico ma doppio elenco, “professionisti” e “pubblicisti e professionisti che non esercitano in via esclusiva”, con la possibilità di transitare da un elenco all’altro, obbligo della laurea, esame per tutti i pubblicisti che vogliano entrare nell’elenco dei professionisti, riduzione del numero dei consiglieri a novanta (ma gli altri Ordini sopravvivono egregiamente con una ventina e poco più di consiglieri), rapporto tre a due tra professionisti e pubblicisti nella ripartizione dei posti, rapporto che il solito consigliere “amico” di Iacopino con un emendamento – una provocazione ben meditata piuttosto che un emendamento – avrebbe voluto trasferire anche ai Consigli regionali (ora il rapporto è di due a uno), facendo lievitare il peso dei pubblicisti, emendamento bocciato di misura, ma che se approvato avrebbe fatto saltare il banco e il principio, ormai una chimera considerati i rapporti di forza, di un Ordine che dovrebbe essere governato da chi “il giornalista lo fa” davvero…

Il risultato lo si è visto: una proposta di riforma debole e un voto debole, una risposta fragile, conservatrice, mimetica, alla crisi che è anche trasformazione di un mestiere e dei suoi strumenti, neppure un cenno di coraggio e d’orgoglio, la fotografia di un sistema moribondo che qualcuno potrebbe facilmente condurre al camposanto.

E il voto trasversale del Consiglio nazionale.

Del voto si è detto, aggiungo: “trasversale”. Con alcuni che si erano presentati sotto le insegne di “giornalista è chi lo fa” e di “o si cambia o si chiude” che si sono adeguati risolutamente alla mediazione; i gallizziani (di Giuseppe Gallizzi), quelli dell’emendamento trappola, che hanno votato contro. Vari passaggi consentiti dal voto segreto. Iacopino resta al comando con una nuova maggioranza e con un paio di cartelle che non attestano certo la volontà e la capacità dei riformarsi, piuttosto una celata vocazione all’estinzione per inutilità. Ovviamente non finisce qui: nessuno può impedire che un altro disegno prenda corpo, dialogando e cercando consenso lontano da via Parigi (la sede dell’Ordine nazionale).

Iacopino, abilissimo conoscitore di materie ordinistiche e affini, dovrebbe capire che chi lo critica non è detto gli sia per forza ostile e dovrebbe imparare a scegliersi gli amici (dei nemici si è già detto).

P.s. Aggiungo una noticina: l’emendamento (bocciato, naturalmente) più lungimirante che ho ascoltato è stato presentato da un gruppo di colleghe milanesi, che riducevano a ventisei membri il corpaccione del Consiglio nazionale, membri eletti in Lombardia e nel Lazio (i due ordini regionali più cospicui) e in alcune macroregioni, accorpamenti territoriali per vicinanza e affinità contro il superfluo e paralizzante localismo.

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