Come fu annunciato dal presidente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni Giacomo Lasorella nella relazione annuale dello scorso 19 luglio (vedi il manifesto del 26 luglio), è stata inviata al Governo una segnalazione come previsto dalla legge n.249 del 1997, sul tema della par condicio.
L’aggiornamento della legge n.28 del 2000 è cosa buona e giusta. Quel testo, immaginato esattamente ventiquattro anni fa e varato all’inizio del millennio è obiettivamente stagionato. Intendiamoci. I punti cruciali sono tuttora attualissimi. La normativa, infatti, metteva qualche ordine democratico in particolare nella giungla mai seriamente regolata del settore radiotelevisivo. In mancanza di rigorose pennellate antitrust e di fronte ad un irrisolto conflitto di interessi, la legge n.28 fu una medicina per curare un malato. Non aveva, in verità, ambizioni di carattere strategico. Serviva a tamponare una ferita aggravatasi con l’occupazione berlusconiana dell’etere.
Nella prima stesura (ddl n.4197, presentato al Senato il 23 agosto del 1999) si ampliava l’orizzonte applicativo anche ai «servizi in rete», secondo un linguaggio oggi obsoleto, che stava a significare la volontà di aprirsi al consumo in rete dove proliferavano i siti di informazione. Tuttavia, già nella prima lettura il punto fu stralciato perché considerato intrusivo rispetto a quello che si considerava il regno della libertà. La storia ha poi stravolto simili ingenue presunzioni. Ma tant’è.
Le 48 pagine vergate dall’Agcom compiono finalmente (quanto tempo perduto, ahinoi) una ricognizione puntuale sulla situazione, offrendo – se non soluzioni predefinite- utili strade da percorrere per un aggiornamento.
Nella prima parte del documento si analizza il mutamento profondo intervenuto nei paradigmi produttivi e, soprattutto, negli usi e negli stili del consumo. La specializzazione dell’offerta e il ricorso ad una varietà all’epoca imprevedibile di strumenti diffusivi hanno reso arduo computare adeguatamente tempi e modalità della rappresentazione del discorso pubblico. Quest’ultima necessità, sempre valida nel corso dell’anno, diviene a maglie sempre più strette man mano che si avvicina l’ora x del voto.
Si sottolinea che la vecchia legge induce a confusione tra i contenitori adibiti alla stretta comunicazione politica e i programmi di informazione, dove pure – senza il bilancino del minutaggio- le pari opportunità vanno preservate.
Così, si individua una certa fragilità nella parte inerente ai messaggi istituzionali, dove la linea di confine tra utilità sociale e propaganda governativa spesso è assai labile. Inoltre, e qui sta uno degli argomenti di maggiore delicatezza, va introdotta nei social la stessa struttura regolamentare per evitare che il saggio divieto nei media classici negli ultimi quindici giorni della campagna elettorale venga aggirato facilmente in rete sotto specie di conclavi o di corse di cavallo.
Insomma, sono numerose e pertinenti le osservazioni inviate a Palazzo Chigi. L’Agcom ha tentato di omologare i comportamenti tra off e on line in diverse fattispecie attraverso un’opera di moral suasion. Serve, però, una revisione adeguata attraverso la fonte normativa primaria. Naturalmente, il cuore si sposta sulla proprietà dei dati e sulla trasparenza degli algoritmi. Vedremo.
Si colgono due grida nel documento, assolutamente condivisibili: le sanzioni previste sono incerte e spesso evaporano per la sequenza veloce degli eventi. Uno strappo fatto alla fine di una campagna difficilmente troverà meccanismi di riequilibro o effettive sanzioni pecuniarie. Tra ricorsi al tribunale amministrativo (è un capitolo da chiarire, evocato implicitamente) e attese delle sentenze, Barabba vince sempre.
E va riaffrontata la questione del silenzio elettorale, sforato normalmente dalla rete e – comunque- ancorato a testi incompleti e superati.
L’Agcom nasconde un po’ i suoi difetti evocando l’urgenza di una riforma.
Va riconosciuto che questa volta almeno utilizza uno dei suoi poteri disegnati dalla legge istitutiva del 1997. Sembra che la Ferrari abbia acceso i motori.