“Il futuro? Sarà peggio”. Alì ha gli occhi, il sorriso e i movimenti di un ragazzone buono. Parole profetiche, le sue, che ci avvertono. Non parla del suo futuro perché cos’altro potrebbe temere; parla di noi, del nostro mondo, del mondo così fatto, di chi si serra negli egoismi e sa alzare solo muri.
Alì parla in uno scenario da day after, davanti a un capannone industriale dismesso. A distanza di anni, Alì continua a viverci, ne ha fatto un’arca dove raccoglie cose che posiziona a mucchi all’interno. Più in là, il suo gabbiotto, il suo “ufficio” dove legge, pensa, pensa di affinare il suo perfetto e dolce italiano, sfogliando parole.
Tanti anni dopo il primo incontro, Domenico Iannacone è tornato a incontrare Alì, attraversando ancora una volta quella umanità che ha saputo darci un salutare pugno allo stomaco, ma pure gonfiare il nostro cuore, quando il racconto è inciampato nella bontà, nella solidarietà, nel coraggio.
Iannacone è tornato in tv, su Rai3, col suo magnifico “Che ci faccio qui”, quando pensavamo che non tornasse più, che dovesse continuare il suo racconto solo per piazze e teatri, sempre pieni. Ed invece è tornato, il racconto televisivo resiste.
Sì, perché la televisione di Domenico Iannacone va controcorrente rispetto a una tv e ad una informazione televisiva che oggi consuma i fatti senza che mai riescano a divenire storie. Velocemente, si consumano e si archiviano, non si consente che lievitino. Notizie e persone consumate come quella insalata in busta che, una volta aperta, è presto destinata alla pattumiera. Con Domenico torna il racconto, al “dove eravamo rimasti”. Racconto dove il tempo passato è giudice severo.
“Che ci faccio qui” va a cercare chi ha raccontato, Domenico lo fa con accanto Bartolo. Lui continua ad attraversare in lungo e in largo la sua terra, ora col furgoncino colmo di viveri per chi ha fame, ora col suo miracoloso bus che raccoglie chi è fiaccato dalle ingiustizie di un mondo storto.
È con Bartolo che Iannacone raggiunge Alì, che vive nel capannone dismesso di quello che fu uno stabilimento per la lavorazione delle arance. Alì è in Italia da 23 anni, da fantasma. Alle spalle non ha più niente e nessuno: due fratelli smarriti, solo un amico in Africa, al quale ha intimato di non venire in Europa. Del suo Paese ricorda la povertà e quei primi due anni di università, in Lettere. Mai avuto un amore, mai avrà i figli che pure avrebbe voluto. Gli occhi non hanno rabbia, pensa a chi sta peggio di lui, e a noi riesce difficile pensare che si possa stare peggio di Alì.
Alì non ha paura dei topi, lo difendono i 15 gatti che dividono con lui questo spazio da fine del mondo. “Sì, c’è chi sta peggio di me, chi diventa pazzo… È dura, ma io non ho mai pianto”. Il lavoro? Capita di essere chiamato a zappare, e quel giorno lo fa da mattina a sera, poi succede che non lo chiamino per giorni. “Fortuna che c’è papà Bartolo”. La vita avrebbe potuto e dovuto essere più giusta per lui, ma Alì non ha rabbia; per il futuro spera solo nel lavoro.
Il viaggio prosegue, riprende in una baraccopoli che è rinata sulle ceneri di una baraccopoli buttata giù per essere sostituita da case più dignitose. “Il circolo perenne dell’emergenza”, sottolinea Domenico. Rifugi più dignitosi sono stati montati, un po’ più in là, ma da due anni aspettano di essere assegnati a questi poveri Cristi. Nel frattempo, la vita in questa baraccopoli, che tanto somiglia alla più disperata baraccopoli di Nairobi, è un mix di sopravvivenza e di ingegno: c’è chi riesce a motorizzare una vecchia bici, chi appronta un banco da macellaio con tocchi di carne ad un euro, chi cuce a macchina. Un cane fedele c’è sempre, più in là una capretta, delle galline. A fare da cornice a uomini, animali e cose, un mare di rifiuti, latrine scandalo.
Si torna anche da Buba, che ora vive solo, gli altri compagni si sono spostati nel Foggiano. “Che vita, meglio morire…”. Lo dice, poi in lui vince il pensiero della moglie e degli otto figli ai quali far arrivare quel che riesce a guadagnare, e allora si devono stringere i denti – se hanno resistito – e si continua a faticare, sperando di rivederli. Anche per lui, come per tanti altri, Bartolo ha un pacco di roba da mangiare, coperte, dei vestiti, un giubbotto arancione da indossare quando al buio, in strada, rischi di essere travolto da un’auto, da un camion, e amen.
Storie di resistenza estrema, come estrema è l’ingiustizia del mondo che ha disegnato così netti confini tra chi non ha diritto a nulla e chi può prendersi quel che vuole. E resistenza è anche quella di Antonino De Masi, imprenditore di Gioia Tauro che ha detto no alla ‘ndrangheta ed è rimasto. Lui in trincea, la famiglia deportata al nord, perché si salvasse. La sua è una guerra difficile da vincere, già da combattere: “Si vince solo se i calabresi si svegliano”, dice.
Intanto, Antonino va avanti, ha 28 famiglie da salvare, quelle dei suoi operai. E questo è un buon motivo per continuare a vivere sotto scorta.
Ad illuminare questo viaggio di ritorno di Domenico Iannacone, ecco Angela, poco più di una bambina. Lei, la volta scorsa non c’era. Angela ha una sorellina, con lei, col papà e con la mamma, è venuta in Italia da poco, su un barcone. Come tanti altri, prima Lampedusa, vivi, poi l’incertezza del futuro. A Marapoti hanno incontrato quell’angelo di Bartolo che aveva avuto in dono una casetta in paese. Bartolo l’ha arredata e l’ha offerta come zattera a questa famiglia che qui ripartiva per il suo viaggio, il viaggio dei viaggi, la vita.
Angela sorride, aiuta Bartolo nella distribuzione dei pacchi del venerdì, aiuta i genitori a capire e a spiegarsi. In cinque mesi Angela ha imparato l’italiano. È felice e lo dicono i suoi grandi occhi. Il racconto continua.