Il delitto Rostagno:la mafia trapanese e un processo sottovalutato
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Il delitto Rostagno:la mafia trapanese e un processo sottovalutato

La mafia c’entra nel delitto con tutte le sue connessioni e intrecci con la politica, la massoneria e i servizi segreti deviati o non deviati.

Mauro Rostano
Mauro Rostano
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26 Settembre 2011 - 21.04


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di Rino Giacalone

Conosciamo bene a Trapani i volti dei mafiosi e di chi li combatte. E quindi non dovrebbe venire difficile fare le dovute differenze. Da una parte i cattivi dall’altra i buoni. E invece i buoni spesso diventano cattivi. E’ la storia di questa città che è sempre stata piena di contraddizioni, mentre religiosissima sin da secoli addietro nel frattempo diventava culla della massoneria più segreta, qui giungevano i Templari e nel loro seno cresceva l’antistato. La mafia a Trapani è sempre stata borghese, i “viddani” hanno avuto spazio solo quando c’era da sporcarsi le mani con la droga e gli omicidi, poi erano loro i “burgisi”, i latifondisti a vestire i panni dei capi mafia. Città silente, muro di gomma.

I visi dei boss sono stati quelli di Totò Minore, Francesco Messina Denaro, i campirei diventati latifondisti, Vincenzo Virga e Francesco Pace, i boss diventati imprenditori, Mariano Agate e Francesco Messina, l’imprenditore ed il muratore diventati mammasantissima da quando furono ammessi a sedere alla tavola del corleonese Totò Riina, Vito ed Andrea Mangiaracina, anche loro mazaresi, che potevano permettersi (Andrea) di incontrare a quattr’occhi il ministro degli Esteri Giulio Andreotti, il senatore a vita le cui accuse di mafiosità pur se prescritte sono state provate proprio da questo incontro, l’unico volto che oggi non si conosce bene è quello del super latitante Matteo Messina Denaro, esistono foto risalenti ai primi anni ’90, dal 1993 è latitante la Polizia con due identikit realizzati secondo le informazioni di chi lo ha incontrato e secondo un programma informatico di invecchiamento, ha tirato fuori due immagini, nell’ultima forse è fin troppo vecchio, anche se qualche acciacco pare l’abbia davvero, da un occhio non vede bene il latitante tanto che a scrivere i pizzini sarebbe un suo personale e fidato emanuense.

Conosciamo i volti dell’antimafia che ha avuto e ha il volto di Gian Giacomo Ciaccio Montalto, magistrato, ucciso nel 1983, di Ninni Cassarà, capo della Mobile, ucciso nel 1985, di Mauro Rostagno, giornalista, ucciso nel 1988, di Giuseppe Montalto, agente penitenziario, ucciso nel 1995, di Alberto Giacomelli, giudice, ucciso nel 1988, di Rino Germanà, poliziotto, commissario a Mazara, sfuggito ai sicari di mafia nel 1992, uno dei pochissimi, forse l’unico che può dirsi sopravissuto aghli assassini Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano e Leoluca Bagarella, un altro sopravvissuto è l’ex pm Carlo Palermo, magistrato, scampato all’autobomba di Pizzolungo nel 1985, l’antimafia ha il volto di Margherita Asta, figlia e sorella delle vittime della strage di Pizzolungo, di Giuseppe Linares, primo dirigente della Questura di Trapani, a capo dell’anticrimine ma messo fuori dal pool che dà la cacci a Messina Denaro, pare, per questione di “gradi”, un primo dirigente c’era già nel pool e un secondo non ce ne poteva essere, l’antimafia ma non solo il volto di una giustizia che non guarda in faccia a nessuno è quello di Andrea Tarondo, magistrato della Procura di Trapani, o ancora c’è il volto sofferente di Fulvio Sodano, ex prefetto, “cacciato” da Trapani dal Governo Berlusconi nel 2003, l’antimafia sociale ha il viso, purtroppo, di pochi, troppo pochi ragazze e ragazzi, donne e uomini, studentesse e studenti, che si sono raccolte attorno ad associazioni come Libera o altre associazioni culturali, che non sono altro che i parenti della “zita” quando c’è da fare una manifestazione. Ma nn per questo pensano a demordere. Tutt’altro. Bravi!

Vorremmo conoscere pure i volti di chi, a sentire qualcuno, ha fatto antimafia per carriera, che ha ottenuto lavoro, che ha guadagnato tanto e non ha perduto niente, che ha guadagnato immunità, che serve il potere che semina disordine. Ci saranno indubbiamente e vanno snidati, siamo d’accordo, ma spesso l’esperienza dimostra che chi parla così spesso lo fa “cicero pro domo sua”. A Trapani si parla tanto di “professionisti dell’antimafia” che era la stessa cosa che tanti anni addietro veniva pronunciata nei confronti di due giudici saltati poi in aria con le loro scorte nella terribile estate del 1992. Anche Falcone e Borsellino venivano chiamati professionisti dell’antimafia, additati, indicati, così alla fine sono finiti ben posti al centro del mirino che i mafiosi tenevano attivo attendendo il momento buono per premere i loto timer: lo hanno fatto, a Capaci, il 23 maggio del 1992, in via D’Amelio a Palermo il 19 luglio dello stesso anno. A Trapani c’è chi, come il sindaco Fazio, che è l’antimafia che produce la mafia. Anche il sindaco di Salemi Vittorio Sgarbi la pensa in questo modo. Nelle aule dei Tribunali si racconta però altro, e cioè che la mafia è tanto sfrontata, ha tanti di quegli appoggi e di quelle complicità, da riuscire ad autonegare la sua esistenza. Il capo mandamento Francesco Pace, appena condannato a 20 anni, in un processo dove nessuno ha pensato di costituirsi parte civile, intercettato è stato sentito dire che la mafia lo ha rovinato, poi però ha continuato quel discorso quel giorno e negli altri ancora, parlando di appalti da pilotare, di cemento da vendere, di prefetti e poliziotti da far mandare via da Trapani.

E quello che il boss andava dicendo trovava riscontro nei salotti e nei bar. Un giorno un investigatore si sentì dire da un professionista della città che il suo trasferimento da Trapani era questioni di giorni, così lui aveva sentito dire. Eppure quel professionista non aveva rapporti con il boss che pure andava dicendo le stesse cose. Si era creato un tam tam e le parole della mafia erano così circolate. L’antimafia esiste per altra ragione, perché c’è una mafia che ha insanguinato le nostre strade, generato morte, cancellato intere classi dirigenti ci ha ricordato giorni or sono a Trapani, ha isolato gli investigatori, c’è una mafia che a dispetto delle sentenze resta forte e arrogante, c’è un sistema a Trapani che permette che un consigliere provinciale resti consigliere anche se condannato ad oltre sei anni per falso, o un altro che si vede notificare un avviso di confisca dei beni, c’è un sistema a Trapani che vale a destra quanto a sinistra, che ha protetto ed evitato lo scioglimento per mafia del Comune di Campobello di Mazara, dove il sindaco finito nel fumus Ciro Caravà (Pd) è stato anche rieletto e senza che la cosa abbia impensierito tanti, lo stesso sistema che permette ad un sindaco coinvolto in un processo di mafia per favoreggiamento semplice, quello di Valderice, Camillo Iovino, Forza Italia prima, Pdl oggi, di restare in carica senza pensare per un attimo a farsi da parte, anzi sta zitto in aula e parla, da sindaco fuori dall’ayula su temi sui quali dovrebbe avere un attimo di riserbo, come la lotta alla mafia, c’è un sistema a Trapani che ha fatto calare la sordina su una sentenza del Tribunale Civile di Roma che sostiene che l’ex prefetto Fulvio Sodano non ha diffamato nessuno, men che meno l’ex sottosegretario all’Interno senatore D’Alì, che lo aveva citato in giudizio, perchè intervistato nel 2005 da Anno Zero disse che fu trasferito d’improvviso dal Governo Berlusconi dopo che aveva deciso di rendere produttivi una serie di beni confiscati alla mafia rimasti inutilizzati e che quel trasferimento era opera del senatore D’Alì.

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Che la mafia esiste a Trapani è cosa certa, che l’esistenza era conosciuta sino a Milano è pure vero se un senatore di nome Marcello Dell’Utri, Pdl, un giorno si rivolse ad un capo mafia, Vincenzo Virga, per costringere un altro senatore, Vincenzo Garraffa, Pri, a pagare la mazzetta chiesta per una sponsorizzazione di una squadra di basket. C’è un sistema che a Trapani permette ad una giovanissima professionista di avere fatto dapprima il presidente del collegio dei sindaci di una azienda in mano ai mafiosi e poi di fare il presidente del collegio dei sindaci dell’Amministrazione provinciale. E tutto questo a Trapani è chiamato con una sola parola, “Normalità”.

Guardate è una cosa straordinaria, sentire parlare in alcune rare volte di mafia a Trapani a certi personaggi che lo fanno solo per traviare subito il discorso e prendersela con chi ogni giorno la combatte, il magistrato ed il giudice nelle aule dei tribunali, i poliziotti, i carabinieri, i finanzieri, nelle loro stanze, l’ultimo dei cittadini che chiede che i suoi diritti non abbiano mai a sottostare a leggi non scritte, quelle dettate in nome dell’onore per esempio, ma che poi sono in verità frutto del più profondo dei disonori. E’ straordinario vedere imprenditori continuare a prendersi appalti nonostante vadano in Tribunale a dire che quelli precedentemente ottenuti li hanno presi pagando tangenti, è straordinario sentire dire che un imprenditore che ha deciso di collaborare con la giustizia e che poi ha rifiutato il programma di protezione, probabilmente non dice la verità perché oggi continua a vivere. E’ una città che quasi chiede, vuole vedere sangue, morti ammazzati, con spesso la Chiesa che resta in silenzio e se prova ad alzare la testa ecco che le teste saltano. Una città che non può essere definita civile. Ma che non è detto che resti incivile, questo futuro va evitato.

Non viviamo in una terra normale,che però si dice normale, purtroppo e ce ne accorgiamo ogni giorno di più. In una terra dove ogni giorno dovremmo ricordare che la mafia è merda, così come diceva fino a 30 anni addietro a Cinisi Peppino Impastato contando i 100 passi che dividevano la sua casa da quella di don Tano Badalamenti, prima che una bomba lo facesse saltare in aria. Anche Peppino era un professionista dell’antimafia, e anche lui ha avuto il suo bel tritolo.

Tutti questi pensieri si affollano mentre si è a Lenzi. È la strada che la sera del 26 settembre 1988 percorse per l’ultima volta Mauro Rostagno guidando la sua Fiat Duna bianca. In fondo, a pochi metri dall’ingresso della comunità di recupero dei tossicodipendenti Saman, c’erano i killer ad attenderlo. Gli spararono due volte, la prima per fermarlo, la seconda volta per finirlo. Ci sono voluti 22 anni perchè questa strada recasse il nome di Mauro Rostagno per decisione dell’amministrazione comunale di Valderice. Più avanti per volontà ancora del Comune di Valderice e della Provincia regionale, è stata posta una stele in marmo. Non c’è nessuno, la cerimonia ufficiale è finita da un pezzo, restano i segni a ricordarla, ora c’è silenzio. Ci sono voluti 22 anni perchè cominciasse anche un processo. Omicidio di mafia e non delitto per questione di corna come in quel 1988 aveva ordinato doveva essere il capo mafia di Mazara Mariano Agate che era il “bersaglio” degli interventi televisivi di Rostagno che il nome di Agate lo aveva incrociato anche nelle trame delle logge segrete, e nei tavoli dove andò a sedere ricevuto in pompa magna dai mafiosi, il capo della P2 Licio Gelli, in quegli anni ’80 quando si diceva che la mafia non esisteva mentre sporcava di sangue le strada. E per quasi 22 anni il passaparola funzionò bene, ucciso per «questione di amanti e di tradimenti». Tanto che se ne sente ancora parlare nell’aula della Corte di Assise dove da febbraio è invece cominciato il processo che vede alla sbarra due conclamati mafiosi, Vincenzo Virga, capo del mandamento di Trapani, presunto mandante, e Vito Mazzara, presunto killer. Delitto di mafia dice ora la Dda di Palermo e l’ordine arrivò da Castelvetrano dalla casa del patriarca della mafia belicina Francesco Messina Denaro. Ciccio Messina Denaro aveva fatto uccidere un suo figlioccio, Lorenzo Santangelo, per una partita di droga sparita, figurarsi se poteva permettersi di sopportare oltre quel giornalista che non faceva altro che denunziare la mafia e i suoi affari da quella tv che apparteneva peraltro ad un imprenditore, Puccio Bulgarella, che con i mafiosi aveva (racconta sempre Siino) un conto aperto per pizzo non pagato.

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Ma il sistema Trapani si fa avanti. Sempre. Si è atteso per 22 anni il processo e adesso in giro si dice, facendolo dire talvolta ai familiari di Mauro che giustamente vanno su di giri, che questo processo da solo non basta, che la condanna degli imputati non è sufficiente a fare chiarezza, che quindi tutto è inutile senza individuare la trama precisa. Quante idiozie! Intanto il processo è stato incardinato dalla Procura antimafia di Palermo a conclusione di una nuova indagine della Squadra Mobile di Trapani e del reparto di Polizia Scientifica, sulle confessioni e rivelazioni di alcuni collaboratori di giustizia e su una perizia balistica. Così sono diventati imputati Vincenzo Virga e Vito Mazzara. Il movente dentro questo processo non c’è, non c’è una accusa che scaturisce da un movente. Certo potrebbe venire fuori dal dibattimento, ma finirebbe in un altro processo, in quello stralcio che la Dda di Palermo ha lasciato aperto dopo avere chiesto e ottenuto il rinvio a giudizio di Virga e Mazzara. Che poi non sono due stinchi di santo. Vito Mazzara campione di tiro a volo andava in giro a compiere ammazzatine di ogni genere, e poi andava a sedere a Valderice al circolo di via Vespri, Vincenzo Virga era quello che aveva in mano i fili della politica, quelli che lo portavano agli ambienti milanesi. E allora è un processo da sottovalutare con simili personaggi? E’ un processo da sottovalutare quello dove si scopre che due carabinieri tenevano nascosti dentro altri fascicoli verbali che se usati subito potevano portare a chi aveva ucciso Rostagno e invece il mafioso che a quel tempo intrecciava rapporti con l’imprenditoria, e magari di tanto in tanto dava la soffiata ai carabinieri per arrestare qualche ladruncolo o spacciatore di droga, non andava disturbato nei suoi affari. Dal 1988 ci sono voluti 6 anni per riconoscere giudiziariamente come capo mafia Vincenzo Virga che lo era già dal 1982, la sera del 24 marzo 1994 quando scattò il blitz Virga però riuscì a fuggire via, un pentito ha indicato in una foto l’immagine di un giornalista, oggi in pensione, che avrebbe fatto questa soffiata ma anche altre, un giornalista che dai carabinieri era sempre ben voluto.

Doveva essere dimenticato Mauro Rostagno perchè in città aveva fatto «troppo chiasso» dagli schermi di Rtc. E questo processo sta subendo la stessa sorte. Va dimenticato. Deve restare una cosa locale e si sa l’informazione locale non ci vuole molto a pilotarla. E chi non ci sta è fuori. Magari diventa lui il bersaglio di vergognose illazioni.

Trapani non è cambiata, i giovani, cara Maddalena, nonostante i tanti sforzi che si fanno continuano a non conoscere canzoni come «Azzurro» o “Bella Ciao”. Preferiscono cantare la canzone du “sciccareddo”.

Trapani resta una città, al contrario di come la pensava Mauro Rostagno, che si schiera con i ricchi e non i con i poveri, ma questo non è un motivo per demordere, questa è la realtà e va raccontata se si vuole fare cambiare. Non si raccontano queste cose per scoraggiare ma semmai per incoraggiare il povero a incazzarsi di più e qualche ricco a meditare meglio sulle sue ricchezze. Questo 23° anniversario si compie senza due protagonisti d’eccezione di quel 1988. Puccio Bulgarella, l’editore di Rtc, e il guru Cicci Cardella che mentre su Facebook dal Nicaragua (dove era tornato a rifugiarsi, come aveva fatto nel 1996 quando fu sospettato di essere mandante del delitto Rostagno, stavolta per sfuggire ad una condanna diventata definitiva, quella dei peculati e delle truffe fatte dentro Saman) minacciava fuoco e fiamme per il fatto che sin dalle prime udienze del processo si parlava molto di lui, e invece è morto d’infarto, nonostante oramai non facesse tanti sforzi, faceva l’ambasciatore del Nicaragua presso i Paesi Arabi. L’unico a celebrarlo è stato Bobo Craxi. Bulgarella e Cardella sono morti portandosi precisi segreti nella tomba. I vivi che li conoscono altrettanto forse anche per averli prodotti possono stare molto più tranquilli, quei sacrari sporchi del sangue di morti ammazzati nessuno li può aprie.

Mercoledì 28 settembre riprende il processo in Corte di Assise a Trapani per il delitto Rostagno. Dove eravamo rimasti? Eravamo rimasti alle deposizioni che hanno suscitato più di qualche perplessità dei carabinieri che in quel settembre del 1988 si occuparono delle indagini sul delitto di Mauro Rostagno. E sui carabinieri che in quel periodo hanno ammesso che avevano frequentazioni con lo stesso Rostagno. E se l’allora comandante del nucleo operativo provinciale dei carabinieri di Trapani, generale, in pensione, Nazareno Montanti senza tanti come e perché ha detto che per il delitto si è imboccata (da parte dell’Arma) una sola pista, quella del delitto maturato come “vendetta” per vicende interne alla comunità Saman – ha detto di avere escluso la pista mafiosa perché non sono emersi mai elementi in tal senso, e figurarsi allora a dire che non c’era la mafia a Trapani era anche il capo della Procura dell’epoca, Antonino Coci – il luogotenente Beniamino Cannas pare abbia avuto gravi vuoti di memoria. Ha ricordato gli incontri con Rostagno come se fossero stati casuali, incontri per strada, quasi sempre conclusi con la ripromessa da parte di Rostagno di andarlo a trovare in ufficio. E Rostagno in ufficio, dai carabinieri, ci andò, ma non per una visita di cortesia, ma per essere sentito con tanto di verbale sottoscritto. E dovette andare anche in Tribunale,. Davanti al giudice istruttore. Ma tutto questo giudiziariamente è stato scoperto dentro al processo. Altro che processo nebuloso.

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Mercoledì si riparte con la testimonianza di Carla Rostagno, la sorella di Mauro e si riparte da un faldone di documenti vergati a mano da Mauro Rostagno che per 22 anni sono rimasti nello studio di un avvocato, che li aveva avuti da una sconvolta Chicca Roveri pochi giorni dopo il delitto, e tra quei fogli c’era il canovaccio di una trasmissione che stava per cominciare. E Rostagno aveva segnato tutto ciò che riguardava la mafia, l’impresa, la politica, gli affari, i grandi intrecci. Bisogna per forza cercare adesso i grandi intrighi internazionali, le super commistioni, chi faceva decollare e atterrare un misterioso aereo sull’abbandonata pista di Kinisia dalla cui stiva si scaricavano casse per caricarne altri con armi? O già basta il lavoro giornalistico di Mauro Rostagno a spiegare il movente almeno quello immediato della sua morte. Poi tra i mafiosi in pochi potevano sapere che Rostagno avrebbe potuto avere scoperto quei traffici, ma questa è un’altra storia, non è il processo di oggi e non può nemmeno esserlo perché il decreto che dispone il giudizio di Virga e Mazzara non ne fa cenno.

Non ci sono elementi nel delitto Rostagno che portano alla mafia? Più si scava nei faldoni processuali e più elementi si trovano, scritti e conservati. La mafia c’entra nel delitto e c’entrerà magari, ci si augura, in altro processo con tutte le sue connessioni e intrecci con la politica, la massoneria e i servizi segreti deviati o non deviati, italiani o stranieri che siano. E l’impressione è quella che Rostagno queste commistioni le aveva non solo percepite, ma conosciute direttamente, e aspettava il momento giusto per raccontarle, avendo le carte, non volendo fare un polverone, come contestava che facevano altri giornalisti, aggiungo sommessamente io, oggi come ieri. E a proposito di giornalisti una cosa va riscritta, ed è la deposizione fatta dall’ex leader delle Br Renato Curcio sentito in una prima fase dell’indagine sul delitto. Va riscritta perché considerato che molti cronisti scrivono da grandi soloni usando però spesso il copia e incolla, continua a girare la fandonia che il boss Agate incontrando Curcio in carcere gli avrebbe detto che il delitto “non è di cosa nostra ma di cosa vostra”. Ecco il verbale reso da Renato Curcio: «Sull’omicidio nessuno e in particolare quelli più vicini a Rostagno avevano fornito elementi utili, la mia impressione fu che il delitto di Mauro fosse uno di quei tanti delitti inconfessabili che si sono verificati in Italia e solo per questo in una intervista lo accostai a quello del commissario Calabresi o alla strage di Piazza Fontana. Non sono stato mai in possesso di elementi certi che mi aiutassero a capire il perchè dell’omicidio». «Mauro – aggiunse Curcio – per un periodo quando mi scriveva mi parlava sempre, e bene, di Cardella, nell’intervista che rilasciò al mensile King mi colpì però che non lo nominava nemmeno una volta, lui che rappresentava il principio autorizzativo di tutti i comportamenti per Rostagno e per l’intera comunità, ma in quell’intervista Mauro omette di citarlo proprio parlando di Saman e ciò per me assumeva preciso significato, doveva essere accaduto qualcosa di rilevante». Per anni si è vociferato di un incontro in carcere tra l’ex capo delle Brigate Rosse e il capo mafia di Mazara, Mariano Agate, tutti e due pronti a parlare della morte di Rostagno. Solo «leggenda ». Curcio lo ha smentito: «Agate non lo conosco nemmeno». E sul coinvolgimento della mafia, facendo riferimento alle notizie di «radio carcere» ha detto: «Mai mi è giunta notizia che potesse fare ritenere attribuibile alla mafia l’omicidio»; ma non avere notizia è cosa diversa dal dire che la mafia non c’entri”.

Ma per raccontare davvero bene cosa sono state le indagini sul delitto di Mauro Rostagno bisogna partire non dal 1988 ma dal 2008 dalle parole di un brigadiere, uno di una volta, vecchio stile, un poliziotto che si chiama Nanai Ferlito che un giorno del 2008 pose una domanda all’allora capo della Mobile, suo dirigente, Giuseppe Linares che aveva deciso di rivedere un po’ di carte antiche su quel delitto nel quale la Polizia non era stata mai coinvolta. L’unico atto, di Polizia, risaliva al rapporto di fine 1988 firmato da Germanà (pista mafiosa) e poi nulla più. Ferlito domandò al suo dirigente se aveva trovato la perizia balistica e se dopo il delitto Rostagno erano stati fatti raffronti con altri omicidi. La scoperta fatta fu quella che nessuno fino ad allora aveva mai pensato a fare queste verifiche e l’indagine stava andando in archivio senza questo controllo. Saltò fuori così l’esito che ha portato alla sbarra Virga e Mazzara, quelli che uccidevano senza pensarci tanto.

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