di Paolo Garuti
Et nos consilium dedimus Sullae, privatus ut altum dormiret, ricorda Giovenale (Satira I, 15-17), rievocando i temi di retorica impostigli dai suoi maestri: «e noi a consigliare Silla perché, tornato a vita privata, se la dormisse beatamente». Vuoto esercizio oratorio, evidentemente, poiché Silla da un pezzo dormiva ben altro sonno; ma pure riflessione sulla natura funzionale del potere pubblico, dato che l’aristocratico dittatore, dopo aver disastrato la democrazia romana, s’era veramente ritirato dall’agone politico negli ultimi anni di vita.
Il nostro, oggi che si deve dimettere sotto la spinta dei fatti e non dei giochini, s’aggrappa a quella Costituzione formale tanto spesso disprezzata, e chiede un ruolo, perché ha vinto tre anni fa. Non accetta di aver fallito ed ha fallito, forse, perché non ha mai ammesso di poter fallire.
Ha fallito perché non gli è bastato comperare Capezzone e Mastella per essere uno statista. Con Prodi lo spread era a 37 (e nessuno sapeva cosa fosse), ora è a più di 500. Ha fallito perché è stato l’uomo del far debiti ed ora tocca cercare chi li paga. Ha fallito perché rappresenta una destra sognatrice, quella dei miracoli atei e devoti come le fiabe di Walt Disney, dei faccendieri sboccati, delle ruspe e chi se ne frega. È parso governare finché gli è riuscito di lobotomizzare il Paese, come altri padroni dell’etere: lascia un’Italia al silicone, decerebrata, confusa come una vecchia soubrette mollata dall’ultimo gigolo.
Oggi che il mondo reale riesce – speriamo – a scollarlo dalla poltrona, vorrei ricordare l’unica volta in cui anch’io ho sperato in lui. Fu una sorta d’illuminazione profetica (di quelle infauste). Non era ancora sceso in politica, ma già aveva rotto il monopolio televisivo. O almeno così pareva in quel tempo: non potevamo immaginare la trista diarchia che ha riempito di vuoto tante nostre ore ed oggi ci assonna a mascelle unificate. Negli ultimi anni ottanta, Canale 5 pareva un inno alla libertà. Bloccato in stazione nell’attesa di un treno in ritardo, sibilai ad un malcapitato controllore: «Ci vorrebbe un Berlusconi anche per le ferrovie dello Stato». Ero proprio a Milano, speravo da lì nascesse un’Italia dell’onesta efficienza: come tanti ero male informato. Pochi mesi dopo Milano esplose e capimmo che l’Italia, dopo la Guerra Fredda, sarebbe stata un’inutile marca di confine, da spartirsi finché ce n’era costruendo, su vecchie logiche di privilegi e favori, potere autocratico e capitali da esportare nei paradisi fiscali. Oggi non è più neppure quello: è un problema da risolvere. Nella famiglia dei popoli è un fratello scemo, tanto scemo da non voler riconoscere la sua fragilità.
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