Uno scatolone lungo e stretto, con due piccole finestrelle, senza balcone. E del colore triste di quelle “case” viste sui treni, poco più in là, lungo la linea ferrata che taglia in due la periferia orientale di Palermo. Rita, tre anni, ha sempre disegnato così la sua casa. In una casa così c’è nata, ci ha passato i suo Natali, le sue Pasque, le sue estati. Freddo in inverno e caldo insostenibile in estate. Le case, quelle vere, erano di fronte e tutt’attorno alla sua casa di lamiera. Gli altri, solo gli altri avevano una casa vera.
Rita è una bambina nata e crescita in una delle undici famiglie del campo container di via Messina Montagne, un campo nato 4 anni fa, a conclusione di una travagliata lotta per la casa, fatta di occupazioni e di sgomberi forzati. Alla fine, la famiglia di Rita e le altre accettarono la vita in container. “Una soluzione provvisoria”, fu detto loro.
Quattro anni, quattro lunghi anni finiti in questo Natale 2011, che Rita e gli altri ricorderanno per sempre, e con gioia. Per la famiglia di Rita, per le famiglie dei bambini che con Rita hanno diviso quella strana vita in quelle strane case, tali e quali a quelle che andavano e venivano lungo la ferrovia, fino al porto, è davvero finita. Il futuro resta incerto, ma il peggio è passato.
Cronaca della fine di una Odissea. Le undici famiglie sono state svegliate di buonora e invitate a preparare le loro cose, la legge antimafia dava loro una casa vera. Case confiscate alle famiglie mafiose. Ci andranno, per sei mesi, poi si vedrà. Comunque, indietro non si torna.
Qualche inconveniente, luce ed acqua tolte in gran fretta al campo, luce ed acqua allacciate in ritardo nelle nuove case, ma non fa niente, non c’è niente che possa guastare la festa. L’eccitazione è grande, per Rita e gli altri bambini del campo, quello che si vive è il gioco più eccitante di sempre. A Francesca, la giovane mamma di Rita, il cuore batte così forte da stare male. Lo sente anche Rita, con le orecchie attaccate al petto della madre, e nelle mani, stretto, il suo orsetto, che ha la priorità nel trasloco improvviso e inaspettato.
In attesa dei mezzi del Comune, c’è chi si aiuta con una motoape. Serve a tutti: i carichi sono spropositati, ma la motoape va, allegra, felice di fare la sua parte in questo giorno di festa. La motoape, simbolo di una Palermo povera, che sa ingegnarsi. Lo fa anche oggi, per quelle undici famiglie che provano a ricominciare.
E’ già l’ora di pranzo quando Sergio, 21 anni, finisce di caricare tutte le sue cose. Chiude il container vuoto, bacia la parete esterna, e lancia in aria, contro il container la chiave di quella casa non-casa. Non gli serve più. Un attimo prima, però, quel brutto scatolone di lamiera che ha tanto odiato, lo ha baciato, per riconoscenza. “Queste pareti, in fin dei conti, mi hanno ospitato per tanti anni… Ma adesso è finita!”.
Quando Rita, Sergio e gli altri voltano le spalle al campo, entrano in funzione le ruspe. Loro vanno, li aspetta il palazzo che li ospiterà. Vanno, portandosi dietro materassi, elettrodomestici, foto di famiglia e tante piccole cose che per anni avevano tentato di dare a quegli scatoloni di metallo l’aspetto di un interno vero.
Quando varcano il portone del palazzo, si scambiano una promessa. Lo fanno davanti alle telecamere e sotto una leggera pioggia: “Staremo sempre vicini, continueremo ad esserlo come lo siamo stati in questi quattro duri anni, aiutandoci”.
“Questa è casa mia!”, urla Francesca quando apre l’appartamento che è stato assegnato alla sua famiglia. Rita è in braccio, con il suo maglioncino rosa, avvolta in una copertina dove trionfa il sorriso di tanti orsetti.
Una casa vera, nella zona di corso Calatafimi, la strada che sale a Monreale. Un salone, due camere, una cucina abitabile. Una delle tante case che facevano numero nel pacchetto delle ricchezze smisurate delle potenti famiglie mafiose di questo quartiere.
Rita e gli altri bambini non lo sanno, a loro interessa condividere la festa, guardare gli occhi gonfi di lacrime e di gioia di papà e mamma, sentire i botti delle bottiglie di spumante, correre da una stanza all’altra, scoprire il bagno con la vasca. Un giorno, non oggi dovranno sapere che questa casa l’hanno avuta per l’impegno di chi una legge sulla confisca dei beni l’ha voluta, anche a costo della vita. Ma avranno tempo per sapere, per capire. Oggi e nei giorni a venire sarà solo il tempo dei giochi. Come è giusto che sia. Felice anno nuovo, Rita.