Il decreto sulle liberalizzazioni proposto dal governo contiene un articolo 22 che affida il territorio nazionale – e il mare attorno – alle multinazionali del petrolio e del gas. Esse potranno fare le ricerche che ritengono necessarie e sfruttare i giacimenti ritrovati per un numero di anni indefinito (20+5+5+ ecc.) salvo poi, una volta esaurito il luogo, rimettere ordinatamente tutto a posto. Come dubitarne?
È tutto scritto con precisione. È perfino adombrata, al punto 8 comma c del suddetto articolo, la necessità di indicare «…l’entità e la destinazione delle compensazioni previste per la fase di ricerca e sviluppo». Insomma è fatto balenare fin da subito un possibile guadagno da parte di proprietari delle aree, enti locali, regioni; anzi l’opportunità di un’equa spartizione, regolata magari da qualche organo dello stato, appositamente delegato. Tutto fatto bene, sia chiaro, come in una banda degna di rispetto. Il massimo per dei veri liberali.
I vari lotti, una volta individuati saranno messi a gara “europea”. Non tutti potranno partecipare, ma solo le imprese dotate di sufficiente credibilità. Una volta partita la gara e superate le specificità che il decreto indica sommariamente, l’attribuzione dovrà avvenire nei successivi otto anni, pena la revoca della concessione. Possiamo immaginare che verso la fine dei primi otto anni il nostro amatissimo territorio nazionale avrà frequenti trivelle e scavi dappertutto; poco tempo dopo ci saranno più buchi per chilometro quadrato che in una fetta di formaggio svizzero. Siccome la malignità è il nostro forte, possiamo anche dare per certo che le multinazionali di qui sopra si spartiranno l’intero Stivale, ma senza pestarsi i piedi. Le gare saranno pro forma, con buona pace di tutti e spesa minore per ciascuno. Come è del tutto legittimo, il senatore Monti chiamerà tutto questo liberalizzazione, mentre sarebbe più opportuno parlare di un cartello. Ma i cartelli fanno parte del mercato, o no?
L’incombere delle compagnie petrolifere non è nominativo nell’articolo 22 ma piuttosto nel precedente articolo 21, o, meglio ancora, nella relazione che l’accompagna, nella quale si può leggere che se non si introducono minori limiti alla ricerca in mare al largo delle zone di rispetto, il risultato sarebbe una «riduzione degli investimenti in tecnologie e servizi forniti dalle imprese italiane con un crollo dei progetti in corso, stimabile in circa 3-4 miliardi di euro nei prossimi anni, con abbandono degli investimenti in corso sul territorio italiano da parte delle imprese italiane ed estere operanti nel settore (recente esempio la Exxon)».
Siccome non si può scontentare la Exxon e le sue beneamate sorelle, allora si può sacrificare terra e mare, ambiente e paesaggio. Si distrugga pure tutto, si buchi e si sporchi, ma finalmente avremo una vera libertà, da vantare a Bruxelles e a Berlino.