di Domenico Fontana*
Ieri sera un chirurgo di Agrigento, avuta la notizia che un rifornimento di benzina nei pressi dell’ospedale aveva ricevuto un carico di carburante, si è precipitato nella speranza di poter mettere un po’ di benzina nel serbatoio. I poliziotti che presidiavano il rifornimento gli hanno però spiegato che non poteva farlo se non autorizzato. Dopo aver chiarito che era un chirurgo dell’ospedale e che la benzina gli serviva perché la notte doveva rimanere reperibile in caso di urgenza gli è stato risposto che si sarebbe dovuto ripresentare con tanto di autorizzazione del direttore sanitario. Incredulo ha chiesto maggiori chiarimenti e gli è stato riferito che si trattava di disposizioni della prefettura. Vista l’ora non è riuscito a farsi autorizzare dal suo direttore sanitario ed è tornato sconfortato a casa sperando che per la notte nessuno avesse bisogno di un intervento chirurgico d’urgenza.
Potremmo raccogliere e raccontare centinaia di vicende come questa e tutte ci portano inevitabilmente a porci una domanda: chi sta realmente gestendo l’ordine pubblico in questo momento in Sicilia? Da quali altri impegni è distratto il ministro degli interni?
Ieri sera il telegiornale regionale ha mandato in onda un’intervista nel corso della quale un manifestante riportava le decisioni prese in ordine alle categorie alle quali sarà concessa nei prossimi giorni la possibilità di muoversi. Mi sono chiesto chi fosse quel signore per poter decidere del diritto a muoversi liberamente dei cittadini siciliani e soprattutto chi avesse deciso a quali categorie riconoscere tale diritto e a quali negarlo. Ad oggi sono rimasto senza risposta ma la rabbia e il fetore di prepotenza, fascismo e mafia che promanava da quelle dichiarazioni me lo sento ancora addosso.
I metodi con i quali si sta svolgendo la protesta, che da giorni paralizza la Sicilia fanno passare in secondo piano anche alcune delle buone ragioni della protesta stessa. Sequestrare degli operai dentro una fabbrica, bloccare per strada o sui binari cittadini ignari a cui viene impedito di andare a lavorare piuttosto che a svolgere altre indispensabili attività, gettare per strada intere cisterne di latte fresco, lasciare marcire tonnellate di frutta e verdura, minacciare autisti di bus o conducenti di treni, imporre la chiusura delle attività commerciali come in alcuni paesi faceva la mafia in occasione dei funerali dei mammasantissima, non sono metodi associabili a una legittima protesta. Anche la protesta più dura deve rispettare regole minime di civiltà. Quando si lede così gravemente la libertà degli altri, l’unica cosa rilevante rimane l’illegalità dei comportamenti.
Per questa semplicissima ragione riteniamo che la più grave delle conseguenze della protesta sia la scomparsa dello Stato! Uno Stato che sta lasciando da giorni milioni di cittadini siciliani in balia di violenza e prepotenza che non possono trovare alcuna giustificazione. In una terra come la Sicilia un segnale così palese di debolezza delle istituzioni può rappresentare un pessimo presagio, soprattutto in vista di una stagione come quella che si sta aprendo che sarà molto calda sul piano sociale. La grave crisi economica che la Sicilia sta attraversando, acuita rispetto ad altre regione italiane dalla pessima qualità delle sue classi dirigenti, sta creando frustrazione e disperazione che non intendo sottovalutare.
Ma non è con slogan vetero-autonomisti, sventolando il vessillo della trinacria e bruciando il tricolore, o con generiche accuse contro i “politici che ci hanno governato in questi anni” (e che ovviamente anche gli odierni manifestanti hanno contribuito ad eleggere) che si risolvono gli atavici problemi della Sicilia. Il balbettio di alcune forze politiche o l’esplicita adesione di altre fanno inevitabilmente sorgere un’altra domanda: chi può avere interesse a cavalcare il caos?
La coincidenza temporale tra le ultime azioni del governo regionale -ricorso contro il bilancio dello Stato, ma soprattutto le forti dichiarazioni contro il caro carburanti- e l’esplosione della protesta sulle stesse parole d’ordine, sommate alla nota vicinanza politica tra i leaders delle sigle che l’hanno organizzata e il presidente della regione fanno sorgere più di qualche dubbio.
Peraltro Lombardo ha ribadito in ogni occasione di condividere le ragioni della protesta pur prendendo le distanze dalle forme più estreme. Ammesso che all’inizio ci sia stata una regia politica però, adesso la situazione sembra sfuggita di mano. Oltre alla denuncia di presenze mafiose di cui ha parlato il presidente di Confindustria Lo Bello, infatti, negli ultimi giorni hanno aderito sigle estreme di destra e sinistra. Insomma la confusione regna sovrana.
Entro aprile la regione dovrà approvare un bilancio che inevitabilmente non potrà più contenere tutti i fondi necessari per continuare ad alimentare l’enorme bacino di precariato e disperazione che decenni di politiche clientelari hanno creato. Migliaia di persone resteranno senza lavoro. Si tratta di una polveriera pronta ad esplodere nel bel mezzo di una campagna elettorale che porterà al voto alcuni dei centri più importanti della Sicilia, tra cui Palermo. Si tratta certamente del momento più delicato dalle stragi del 1992.
Per questo è necessario maggiore senso di responsabilità. Smettano i partiti di solidarizzare con gli atti violenti e provino ad interpretare gli autentici bisogni della Sicilia, sempre che se ne siano ancora capaci. Si assumano la responsabilità di proporre politiche capaci di rilanciare strutturalmente l’economia siciliana in un quadro evoluto di sostenibilità ambientale, piuttosto che accodarsi, più o meno esplicitamente, a chi grida più forte.
Ma è soprattutto indispensabile che lo Stato dimostri la sua esistenza ripristinando in modo pieno condizioni di libertà per i cittadini siciliani. Accettare seppur temporaneamente che in una parte della Repubblica Italiana possano essere sospesi alcuni diritti costituzionali è una colpa gravissima, soprattutto se ciò avviene in una regione ad altissima densità mafiosa come la Sicilia.
*Presidente regionale di Legambiente