di Onofrio Dispenza
Ci si può ancora dividere su come rifondarlo questo Paese, ma credo che si possa essere tutti d’accordo che va rifondato. Ci si può dividere sulle priorità, sui tempi, ma ci si deve ritrovare d’accordo, per esempio, sul fatto che vanno rivisti i poteri all’interno delle università, spazio che sembra ancora sfuggire alla legge, all’equità, al diritto e al buon senso. Continuano a dominare quelli che una volta si chiamavano ”baronati” e che determinavano eredità, continuità familiari, cooptazioni per appartenenze che andavano da quella massonica a quella politica. Abbiamo usato il tempo passato provocatoriamente, perché poco è cambiato. Anzi, con la proliferazione e lo spargimento a pioggia di atenei e consorzi universitari si è proceduto, sempre con i criteri sopra ricordati, a una più vasta elargizione di posti. In barba a legge, norme ministeriali, nonché equità di giudizio e buon senso, come dicevamo.
Dall’introduzione al caso specifico, Uno dei tanti, ma che certamente, e indirettamente, chissà quanti altri casi, più o meno, racconta.
Lo scenario è quello siciliano. E omettiamo i nomi, vale e indigna la storia. In Sicilia l’università, anche l’università, è stata ed è attraversata da un fascio di poteri che non esclude la mafia, se non altro nei metodi. La casistica è ricca e ci porterebbe via molto tempo, sia parlando di Palermo che di Catania; ancora più tempo richiederebbe Messina, dove nell’intreccio esplosivo potere politico-mafia e massoneria ci sono scappati anche alcuni morti. Non che la citazione solo di Messina escluda soluzioni estreme perpetrate negli altri due poli universitari; facciamo loro la regalia di escluderle.
Sede di Ragusa, che fa capo a Catania. Qui si svolge un concorso che fa gridare allo scandalo e che muove anche una dettagliatissima interrogazione al Ministro dell’Istruzione presentata dal deputato PD, Paolo Corsini.
Agosto 2011. L’Università di Catania indice una selezione pubblica per 13 posti di ricercatore, tra cui 1 per la facoltà di Lingue e Letterature straniere con sede a Ragusa. Il settore è quello della Storia contemporanea. Il 4 ottobre si nomina la commissione; un mese dopo si riunisce la commissione. Complicato sintetizzare l’iter dell’esame dei titoli e la valutazione di questi. Altrettanto difficile (e pare anche assai discrezionale) l’assegnazione dei punteggi per questo o quell’altro titolo e pubblicazione. Punto fermo della valutazione dovrebbe essere il possesso del titolo di dottore di ricerca o equivalente. A metà novembre il numero dei concorrenti viene dimezzato da una prima selezione, a metà dicembre si arriva alla proclamazione: vince un architetto, una donna. A lei il posto di ricercatore in Storia contemporanea. Si, un architetto, con un curriculum tutto improntato al tema dell’architettura e della sua storia.
Subito dopo, il secondo classificato si rivolge al Tar. I magistrati hanno il lavoro facile: chi ha vinto ha una laurea non attinente o congrua al settore concorsuale bandito; non è in possesso del titolo di dottorato di ricerca; ha un profilo e un’attività di studio non congrue al settore scientifico-disciplinare richiesto dal bando. All’esame dei magistrati un valzer di voti e valutazioni che qui è difficile ricostruire ma che agli stessi magistrati appare un percorso valido soltanto a determinare un vantaggio per il vincitore. Altri indizi? Tra le pubblicazioni dell’architetto risultato vincitore, due saggi contenuti in altrettanti volumi curati dal presidente della commissione giudicatrice e un volume dello stesso presidente nel programma d’esame del corso di Storia dell’architettura tenuto dall’architetto catapultato nella Storia contemporanea. Laurea ”eccentrica” quella di architettura per darle uno sbocco nella Storia contemporanea. Magnanime la commissione nell’attribuire un punto all’architetto solo per l’iscrizione al primo anno di dottorato, non per un titolo, dunque, ma solo – diciamo – per l’immatricolazione. Altra stranezza, quasi 5 punti al vincitore del concorso per la partecipazione auto-certificata a convegni nei quali l’interessato non aveva presentato relazioni o interventi scritti. Poteva benissimo esserci stata, ma nella pausa caffè. La stranezza (una delle innumerevoli, in verità) è che al secondo classificato per una equivalente partecipazione si assegna solo 1,8 punti. .
Insomma, il Tar vede tante di quelle incongruenze da sospendere il risultato del concorso e richiamare la commissione ad una revisione del giudizio. A questo punto, voi penserete che la commissione si riunisce, e, rossa in viso, cospargendo di cenere il capo, rimetta le cose a posto evitando di fare del giudizio un gioco delle tre carte così come lo si può incontrare sul marciapiede di una affollata stazione ferroviaria. Affatto, come ricorda l’interrogazione, la commissione si riunisce ma non ottempera all’ordinanza del Tar: riconferma l’esito contestato, non applicando norme ministeriali e svalutando titoli. E’come se la commissione avesse detto, anche al Tar oltre che al ricorrente – scusate l’espressione volgare – “Cazzi nostri!” .
Sintesi e semplificazione del caso vi hanno risparmiato qualche sicura espressione scandalizzata e incredula, anche a voi qualche esclamazione volgare.
Ora, tornando alla premessa, ribadiamo: è mai possibile? Se ci si scandalizza, per esempio, di quel che accade dentro e fuori gli stadi a proposito delle scommesse milionarie. Se il presidente del Consiglio in proposito arriva a dire che forse sarebbe meglio per il calcio che i campionati si fermassero per due, tre anni, allora cosa si dovrebbe dire per l’università? Si dovrebbe urlare: “Tutti fuori!, ricominciare da un esame sulle conoscenze e da un severo esame della struttura etica di chi pensa di essere padrone indiscusso e indiscutibile degli atenei. Tanto da poter determinare i destini degli altri, far avanzare la pedina amica e spezzare quell’altra, violentando i principi della democrazia e della giustizia. E poi ci meravigliamo dei tanti giovani che sbattono la porta e trasferiscono nostre risorse all’estero. “Ma mi facci il piacere!”, diceva Totò.