Non c’è solo desolazione e volgarità nella coda del caso Aldrovandi. C’è anche comicità involontaria. Ma in fin dei conti è solo un altro genere di desolazione e volgarità, quella di chi ignora ciò che gli accade intorno e ha la memoria storica di un pesce rosso. «Abbiamo appena depositato un’interrogazione parlamentare al ministro Cancellieri per verificare se quanto scritto sul gruppo Facebook ‘prima difesa’ e pubblicato sul sito internet de Il Manifesto sia vero e, nel caso, come il Governo intende intervenire», fa sapere la capogruppo democratica nella commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti in relazione al commento scritto da uno dei quattro agenti condannati per l’uccisione di Federico Aldrovandi in cui denuncia un caso analogo a Trieste con «responsabilità reali da parte di poliziotti» di cui non si sarebbe venuti a conoscenza. «Si tratta di parole che destano sconcerto su cui si deve fare piena luce», conclude la deputata democratica.
Magistrata ordinaria, 55 anni, Donatella Ferranti aveva già 50 anni e svolgeva un ruolo importante al Csm quando Liberazione, ma anche altri giornali, tirò fuori la storia di Riccardo Rasman. Quattro agenti intervennero il 27 ottobre del 2006 nell’appartamento del trentaquattrenne triestino in cura in un centro di salute mentale da quando l’impatto con il nonnismo lo aveva fatto tornare sconvolto dal servizio militare. Rasman, per tutto questo, percepiva una piccola pensione militare. Suo padre Duilio, a margine del processo, concluso nel gennaio 2009, ha ricordato che i suoi commilitoni lo avevano preso di mira. Riccardo si trovò la testa nei lavandini e nei gabinetti, i bottoni della divisa strappati. Non riusciva a dormire per colpa dei “nonni”, veniva punito. Tutto ciò avrebbe inciso per sempre nella sua vita. Nulla sarebbe più stato come prima. Fino a quella sera in cui sembrava che si aprissero per lui nuove possibilità: aveva firmato un contratto con l’azienda della nettezza urbana. Era euforico. Anche troppo. Al punto che uscì svestito sul balcone e si mise a lanciare petardi in cortile. La radiolina suonava “a palla”.
Spaventò i vicini che si rivolsero al 113. Ma quando arrivò la volante Riccardo s’era già calmato, s’era rivestito e stava sul letto. Dalle finestre spalancate di una sera calda, i vicini videro tutto. La polizia, però, anziché allertare i sanitari del Csm di Domio che lo seguivano da tempo, arrivò coi vigili del fuoco. Per Rasman fu di nuovo il terrore. I pompieri che gli forzavano la porta e i poliziotti che entravano.
Riccardo era un omone, un metro e 85 per centoventi chili. Tenta di difendersi, butta per terra l’unica donna tra gli equipaggi accorsi. Sarà lei l’unica a uscire assolta dal processo con quella che si sarebbe detta “formula dubitativa”. Quando il ragazzo rantolava lei era alla radio con la questura. I suoi colleghi si alternavano sul corpo dell’uomo ormai legato (da tutti e quattro) alle caviglie col fil di ferro, imbavagliato e ammanettato. «Le pareti attorno paiono quelle di una macelleria», avrà a scrivere Valerio Vangelisti, scrittore bolognese, a proposito della scena del delitto dopo l’irruzione.
Eppure anche il caso Rasman, come a suo tempo quello di Federico Aldrovandi, o di Aldo Bianzino ucciso in prigione a Perugia, o di Marcello Lonzi morto in carcere a Livorno, pareva incamminarsi a tempi record verso l’archiviazione. Una strada che si blocca quando i familiari, costituitisi parte civile, chiedono un supplemento di perizia. Il caso ha moltissimi punti di contatto con l’omicidio di Federico Aldrovandi, il diciottenne ucciso a Ferrara un anno prima durante un misterioso e violentissimo controllo di polizia. Coincidenze che non sfuggono a uno dei legali della famiglia ferrarese e di cui chiede conto anche Haidi Giuliani, all’epoca senatrice di Rifondazione comunista, in un’interrogazione parlamentare. Quell’avvocato, Fabio Anselmo, si affianca a Giovanni Di Lullo. Insieme riescono prima a evitare l’archiviazione, poi a concludere un processo (con il rito abbreviato che comporta uno sconto di pena di un terzo) con la condanna degli imputati, col riconoscimento che la colpa degli agenti provocò un’asfissia posturale – riscontrata dai medici legali – che ammazzò Rasman. Se non gli fossero montati sopra non sarebbe morto. Se l’atto dovuto dell’irruzione fosse stato gestito diversamente quel ragazzo sarebbe ancora vivo. Nelle scuole di polizia situazioni di questo tipo, e i gravi problemi respiratori indotti da modalità violente e inappropriate, sono piuttosto chiare agli addestratori.
Ecco, ora la deputata Ferranti ne dovrebbe sapere abbastanza e la prossima interrogazione potrebbe riguardare proprio i livelli di addestramento e di fedeltà costituzionale dei “nostri” ragazzi all’epoca del “nuovo modello di difesa” voluto fortemente dal suo partito. Lo farà, onorevole?