«Il continuum della violenza in casa si riflette in un numero crescente di vittime di femminicidio per mano di partner, coniugi o ex partner», ma le risposte dello Stato non sono appropriate. Quando la relatrice speciale dell’Onu sulla violenza di genere è arrivata in Italia a gennaio, non tutti hanno compreso l’importanza di questa missione. Ma ora che Rashida Manjoo (docente al Dipartimento di Legislazione Pubblica dell’Università di Cape Town, e nominata esperta indipendente dalle Nazioni Unite nel 2009), ha illustrato il risultato di quella visita, nel corso della 20° Sessione del Consiglio dei Diritti Umani che si svolge in questi giorni alla Nazioni Unite di Ginevra – presentando sia il Rapporto tematico sugli omicidi di genere, sia il Rapporto sulla violenza nei confronti delle donne in Italia – forse ce ne possiamo rendere conto.
Come premesse del Rapporto leggiamo che nel nostro Paese «gli stereotipi di genere, che predeterminano i ruoli degli uomini e delle donne nella società, sono profondamente radicati», che «le donne hanno un pesante fardello in termini di cura delle famiglie, mentre il contributo degli uomini è tra i più bassi nel mondo», e che riguardo al lavoro, nonostante l’articolo 51 della Costituzione rafforzi il principio della parità tra i sessi, «le donne sono sotto rappresentate nei settori pubblici e privati, sia a livello nazionale, regionale o locale» mentre le posizioni di senior management «sono ancora dominate dagli uomini anche dove le donne costituiscono la maggioranza della forza-lavoro».
In questo quadro già disarmante, è la violenza in casa la forma di violenza sulle donne più estesa nel nostro Paese con un tasso medio di prevalenza del 78%, dove però solo il 18,2% delle donne considera la violenza domestica un crimine, mentre il 36% lo accetta come un evento normale. «Purtroppo, la maggioranza delle manifestazioni di violenza – ha detto a Ginevra Rashida Manjoo – non sono denunciate perché le donne vivono in una contesto culturale maschilista dove la violenza in casa non è sempre percepita come un crimine, dove le vittime sono economicamente dipendenti dai responsabili della violenza, e dove persiste la percezione che le risposte fornite dallo Stato non siano appropriate e di protezione. Per questo il mio report sottolinea la questione della responsabilità dello Stato nella risposta data al contrasto della violenza, analizza l’impunità e l’aspetto della violenza istituzionale in merito agli omicidi di donne causati da azioni o omissioni dello Stato».
Per Barbara Spinelli, avvocata e relatrice per l’Italia insieme alla Piattaforma Cedaw presente al completo a Ginevra, «il Comitato per l’attuazione della Convenzione Onu per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne, aveva chiesto a vari Stati, tra cui al Messico e all’Italia, di adottare misure specifiche per il contrasto al femminicidio, evidenziando come l’aumento dei casi potesse essere sintomo di un fallimento delle autorità nel proteggere le donne dalla violenza, soprattutto quella domestica che troppo spesso (nel 70% dei casi) precede il femmicidio. Oggi il nesso che è stato individuato tra le relazioni di intimità, soprattutto quando si sceglie di porre fine a una relazione, e l’aumento del femmicidio – spiega Spinelli – non può lasciare indifferenti, e rendere più sicure le donne nelle separazioni è fondamentale.
Per avere un vero quadro della situazione sarebbe opportuno raccogliere i dati su quella che è l’applicazione di ogni singolo tribunale riguardo l’affido condiviso anche in casi di violenza domestica, perché capire la connessione tra la violenza subita dalla donna in fase di separazione, o di divorzio, e la gestione della genitorialità, è fondamentale. Se esistono due diritti fondamentali, il diritto della bigenitorialità e il diritto a una vita libera della violenza, bisogna metterli con pari dignità. E andare a modificare la norma dell’affido condiviso, come si sta cercando di fare in questi giorni al Senato, senza inserire il suo divieto nei casi si violenza domestica, significa non adottare misure che possano prevenire una parte importante dei femminicidi in Italia».
Nel rapporto dell’Onu si legge chiaramente che da noi «il continuum della violenza in casa si riflette in un numero crescente di vittime di femminicidio per mano di partner, di coniugi o ex partner», e che «la maggior parte dei casi di violenza sono non denunciati nel contesto di una società patriarcale, dove la violenza domestica non viene sempre percepita come un crimine, e dove le vittime sono in gran parte economicamente dipendenti dagli autori della violenza». Una situazione che diventa esplosiva quando la donna decide di mettere fine alla convivenza o al matrimonio, soprattutto in presenza di figli minori.
E se le cause del femmicidio includono la separazione di una coppia e il conflitto all’interno della relazione affettiva, a ciò si aggiunga che – come sottolinea la relatrice speciale dell’Onu – «ulteriore violenza perpetuata contro le donne è il regime dell’affidamento condiviso in seguito alla dissoluzione del matrimonio», in quanto «alle donne che hanno subito violenza domestica può, in alcuni casi, essere richiesto di mantenere uno stretto contatto con l’autore del reato di violenza diretta e assistita dai figli» e che «le richieste dell’ex partner per l’affidamento congiunto del figlio, sono spesso utilizzate per mantenere una comunicazione e indirettamente continuare a esercitare il controllo sulla sua ex partner/moglie». Una responsabilità che le istituzioni, il governo italiano e gli organi della giustizia, ancora non sembrano aver preso in seria considerazione.