Volete l'Ilva chiusa o aperta? Domande in tv
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Volete l'Ilva chiusa o aperta? Domande in tv

La tragedia dell’Ilva vista dai telegiornali e riletta dalla Rete: operai con le spalle al muro e con un pugno di sale nelle ferite. [Ginevra Derivi]

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31 Luglio 2012 - 09.36


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di Ginevra Derivi

“Vogliamo tutelare il diritto dei cittadini e dei lavoratori”. Quella di Taranto, in onda in questi giorni, è una storia enorme e la Rete è una utile angolazione per vedere le cose e pesare i sentimenti scossi dagli avvenimenti attorno all’Ilva. Storia di diritti violati, di malattia e di morte, di connivenze tra potere politico e potere economico, dell’ennesima richiesta di scegliere tra lavoro e salute. Saltando da un blog all’altro si scova anche una lettura critica di come la tv e il giornalismo televisivo, quello che taglia a fette la realtà senza preoccuparsi di tranciare i nervi, si pone di fronte ad una vera tragedia. Vittime di tanta tragedia, i diritti, qui messi l’uno contro l’altro. Nella sua enormità – è la considerazione che rimbalza da un blog all’altro – è anche una storia in cui i cittadini scontano l’ignavia dei politici e delle istituzioni e la determinazione di certe aziende a compiere crimini.

La frase “Vogliamo tutelare il diritto dei cittadini e dei lavoratori” è la risposta dichiarata che “Contrappuntoblog.org” invia a LineaNotte del Tg3 per la puntata di giovedì scorso, attraversata da un’unica, martellante domanda della conduttrice, per l’occasione il direttore del Tg3. Domanda che metteva sale a pugni nella ferita profonda di chi a Taranto respira e ci lavora, meglio ci lavorava. Una puntata che ha lasciato il segno, tanto che era evidente, il giorno dopo, quante difficoltà la stessa trasmissione, sempre sull’Ilva, aveva avuto a mettere assieme una interlocuzione con lo studio. E per metà di questa settimana lo stesso Tg3 ha annunciato un’altra puntata a Taranto. Da vedere come finirà, dopo i malumori della scorsa settimana, tra gli operai, già sufficientemente turbati dalle cose serie.

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Nel provvedimento della magistratura, che non poteva far finta di non vedere, è scritto che «chi gestiva e gestisce l’Ilva ha continuato in tale attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza». Ora – nota un altro blog – quello che ci propinano i media è lo spettacolo degli operai che difendono il posto di lavoro ad ogni costo, bloccando la città. Nel collegamento di giovedì scorso con LineaNotte del Tg3, anche gli operai dell’Ilva hanno fatto chiarezza sullo sciopero dichiarando di essere stati manipolati dai sindacati, che avrebbero fatto credere loro che con i sigilli non potevano più lavorare. Mentre gli operai bloccavano la città, la produzione dell’Ilva continuava a ritmi addirittura superiore a quelli normali (di solito in caso di sciopero è garantita la sola manutenzione in attività degli impianti). Gli operai hanno sostenuto con chiarezza di non essere disposti a difendere il loro posto di lavoro ad ogni costo.

All’insidiosa questione posta da Sallusti durante la trasmissione e ribadita dalla conduttrice: “Volete che l’azienda chiuda, come chiede la magistratura, o volete che continui ad operare?” gli operai – ricorda il tam tam della rete – hanno risposto con estrema determinazione: “Non siamo noi che dobbiamo indicare la soluzione, noi rivendichiamo il nostro diritto a lavorare in sicurezza, in un ambiente sano per noi e per le nostre famiglie”.

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“Alcune sere fa sera – si legge nel blog de “La fata centenaria” per arrivare ad un commento finale della serata delle domande impietose – ho visto in tv Fortapàsc, il film di Marco Risi dedicato al giornalista del Mattino di Napoli Giancarlo Siani, ucciso dalla camorra a soli 26 anni. Un bel film. Onesto e toccante. Ci ho riflettuto dopo – continua la considerazione del blog – incappando nell’approfondimento notturno del Tg3, LineaNotte. La conduttrice incalzava gli operai dell’Ilva perché rispondessero a una domanda che pareva formulata con l’accetta: “Volete che l’Ilva rimanga aperta o chiuda?” (in sostanza: preferite morire di fame o di tumore?). E s’irritava, perché gli operai dell’Ilva non prendevano posizione. “Lavoro in salute e sicurezza”, rispondevano. “Ma preferite che chiuda o rimanga aperta?”, insisteva lei, imperterrita, non contenta della risposta. Come se la risposta (la fame o il cancro) – nota il blog – potesse mettere il punto finale alla questione. Nell’aria aleggiava il sospetto, mai chiaramente formulato ma a mio avviso comunque percepibile – continua il blog – che gli operai fossero codardi, o forse opportunisti (perché, se non sceglievano né l’uno né l’altro, cosa volevano allora?), al minimo confusi.

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Lavoro in salute e sicurezza era la sola possibile risposta. Lavorare infatti è una necessità prima che un diritto in una società civile, con buona pace della Fornero. Sicurezza e salute spetta poi agli esperti (dagli imprenditori ai manager fino ai rappresentanti sindacali) assicurarle nei dovuti modi.
Alcuni operai intervistati nel corso della trasmissione sembravano piuttosto preparati, ma sempre operai sono. Se gli operai sapessero esattamente come si fa a gestire una gigantesca attività produttiva come l’Ilva nel pieno rispetto della salute e dell’ambiente – nota bene il blog – perché dovrebbero accettare un salario da operaio lasciando ai manager stipendi milionari?

Davanti a questo ulteriore bell’esempio del nostro giornalismo con la G maiuscola (poca intelligenza, molta ideologia, zero empatia umana) – è il commento finale – ho ricordato le parole del caporedattore di Siani (quando ancora lavorava da precario per la cronaca locale), un certo Sasà impersonato nel film da Ernesto Mahieux. Simpaticamente paraculo spiegava al giovane Siani affamato di verità (sembra utilizzasse una macchina da scrivere su cui stava scritto “Se la tocchi, la sposi!”) ma ancora ingenuo che “esistono due categorie di giornalisti: gli uni sono i giornalisti-impiegati e gli altri i giornalisti-giornalisti, quelli che portano gli scoop ma si fanno male perché sono scomodi a questo Paese”. E poi aggiungeva che in questo Paese c’è posto solo per i primi.

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