Sono state le indagini della Dia sugli omicidi di mafia a portare alla scoperta dell’orrore puro: veri e propri forni crematori in cui i boss usavano ordinare di bruciare i corpi dei “nemici” dei clan, spesso sciolti nell’acido.
I forni si trovano alle porte di Palermo, nel podere di Fondo de Castro di proprietà del boss Salvatore
Liga, detto “Tatuneddu”, che sin dagli anni ’70 ha svolto anche
il ruolo di ‘becchino’ dell’organizzazione criminale, arrestato
dalla Dia nel marzo del ’93, fedelissimo di Rosario Riccobono,
83 anni, allora capo del mandamento mafioso di Tommaso Natale
che all’epoca si estendeva sino al carcere dell’Ucciardone.
Gli investigatori sono arrivati al podere indagando, e venendo finalmente a capo, sull’uccisione del maresciallo Calogero Di Bona, vice comandante degli
agenti di custodia del carcere Ucciardone di Palermo. Di Bona, nel 1979, venne prima
ucciso e poi carbonizzato. Per i magistrati il mandante dell’omicidio
sarebbe stato il capo mandamento della famiglia mafiosa di Tommaso
Natale, Rosario Riccobono, scomparso per lupara bianca.
L’intera cosca capeggiata dal
capomafia indiscusso Rosario Riccobono fu messa in campo, 33 anni fa,
per sequestrare e strangolare il maresciallo Calogero Di Bona Di Bona,
ritenuto responsabile di un ipotetico pestaggio subito in cella da un
uomo d’onore, Michele Micalizzi, già legato da vincoli sentimentali
alla figlia del boss Riccobono.
Il 6
agosto 1979, il giovane e inesperto De Bona fu
dirottata presso la famigerata IV sezione del carcere dove si
trovavano ristretti numerosi uomini d’onore ritenuti maggiormente
pericolosi, che al tempo stesso fungeva da infermeria.
La giovane guardia,osservò che i boss si muovevano troppo liberamente, ed ebbe l’ardire di richiamarli all’ordine, nel tentativo di farli rientrare nelle rispettive
celle. Per tutta risposta un paio di loro lo aggredirono
violentemente, tanto da costringerlo ad immediate cure, prestate
presso la stessa infermeria del carcere. Perquel pestaggio non scattò nessun provvedimento disciplinare. “L’unico detenuto individuato senza incertezze dalla vittima,
non scontò di fatto alcuna sanzione disciplinare e, probabilmente, se
le cose fossero andate come illecitamente pianificato, non avrebbe
subito nessuna conseguenza penale per quel gravissimo comportamento –
dicono gli investigatori – Ma le cose non andarono come auspicato dai
boss mafiosi coinvolti nel fatto: una cruda e spietata missiva,
vergata da anonimi agenti carcerari, venne inviata intorno alla metà
di agosto del 1979 alla Procura della Repubblica, al Ministero di
Grazia e Giustizia e a due quotidiani cittadini, che, però, la
pubblicarono soltanto dopo l’avvenuta scomparsa di Di Bona”.
Nell’anonimo, le guardie lamentavano non solo la mancata
punizione del detenuto, etichettato con epiteti diffamatori, reo della
vile aggressione in danno del loro compagno di lavoro, ma anche “il
potere di mafia” esercitato dai boss all’interno delle antiche mura
borboniche dell’Ucciardone. “La giustizia degli uomini avrebbe agito
con lentezza e con esiti incerti, al contrario, il “tribunale” della
mafia, frattanto entrato in possesso della missiva, ancor prima della
pubblicazione da parte degli organi di stampa, sentenziò in maniera
rapida e spietata – dicono ancora gli investigatori – Ebbe, infatti,
da qui inizio un escalation di episodi intimidatori nei confronti
degli appartenenti all’Istituto Penitenziario cittadino, nell’ambito
di una vera e propria contro-offensiva, che culminerà, appunto, nel
sequestro e successivo omicidio del sottufficiale, “portato” al
cospetto di Cosa nostra, al fine di indicare gli autori di quella
missiva, che, “oltraggiando ” Micalizzi e l’intera organizzazione
criminale, fornì l’input per altri provvedimenti penali, anche a
carico di Micalizzi”.