Quei tre morti a Mostar per raccontare
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Quei tre morti a Mostar per raccontare

Oggi, 19 anni fa. Marco Luchetta, Dario D'Angelo e Alessandro Ota, Rai Trieste, sono uccisi a Mostar. Lavoravano a un reportage sui bambini vittime della guerra.

Quei tre morti a Mostar per raccontare
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28 Gennaio 2013 - 14.47


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Il 28 gennaio del 1994 Marco Luchetta, 42 anni, giornalista, Dario D’Angelo, 47 anni, operatore e Alessandro Ota, 37 anni, tecnico, muoiono uccisi da una granata lanciata delle forze croato-bosniache, a Mostar est. I tre colleghi, tutti della sede Rai di Trieste, si recano in Bosnia per realizzare uno speciale sui bambini vittime della guerra in corso nei territori della ex-Jugoslavia. Entrano a Mostar est – parte della città controllata dall’Armija e sotto assedio da più di un anno per mano dell’HVO, esercito croato-bosniaco – sui mezzi del convoglio della Croce Rossa internazionale partito la mattina dalla vicina Medjugorije (sotto controllo dell’HVO), scortati dal contingente spagnolo dei Caschi blu.

Nei pressi del piccolo edificio adibito a ospedale, Luchetta, Ota e D’Angelo entrano al numero 82 di Marsala Tita, nel cortile di un complesso quadrilatero residenziale. Una cantina con l’ingresso dal cortile è adibita a rifugio e da mesi vi si nascondono decine di persone tra cui molti bambini. All’ingresso del rifugio, mentre intervistano un bimbo (Zlatko Omanovic) cade a poca distanza una granata, che colpisce gli operatori. I loro corpi fanno da scudo a Zlatko, che si salva. I tre operatori Rai lasciano tutti moglie e figli piccoli.

Un’intervista a Daniela Schifani, moglie di Marco, dell’Osservatorio sui Balcani e Caucaso.

Cosa ricorda di quei tragici giorni?

Ovviamente l’immagine di quel 28 gennaio era ed è rimasta di angoscia e disperazione. Ma posso dire che i giorni successivi, pur essendo stati terribili, mi sono rimasti impressi perché carichi di umanità e di solidarietà. Di quei giorni ricordo l’energia e l’affetto che tantissima gente mi ha dimostrato, stringendosi attorno a me alla mia famiglia in un “abbraccio collettivo” così forte che era impossibile non percepire.

Da quell’evento nasce la volontà di continuare sulla scia dell’impegno dei giornalisti a sostegno di bambini vittime della guerra. Può raccontare di cosa si tratta?

L’idea prese forma proprio in quei giorni, tra amici. Cercavamo di capire quale fosse la maniera migliore per ricordare Marco e i suoi colleghi, ma allo stesso tempo anche il modo più giusto per trasformare un evento così terribile in qualcosa che potesse lasciare un segno positivo nel tempo. Ciò che decidemmo rappresentò anche il modo per convogliare tutta l’energia e e la solidarietà sentita in quei giorni in qualcosa di concreto, oltre che la maniera per reagire costruttivamente a quel dolore. Ammetto che è anche un aspetto del mio carattere, cercare di fare subito qualcosa appena mi trovo in difficoltà… altrimenti non reggo. La “Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin Onlus” per i bambini vittime di tutte le guerra, nacque quindi da questo scambio di energie all’interno di gruppo di amici che avevano voluto bene ai tre inviati, con l’intento di ricordarli ma anche spinti dalla storia di Zlatko. Zlatko è il bimbo di 5 anni che era con Marco e i suoi colleghi quando cadde la granata. Si salvò grazie ai corpi dei tre giornalisti, che gli fecero da scudo.

Zlatko Omanović è quindi il primo bambino che aiutaste?

Appena venimmo a conoscenza di questo bambino, il nostro immediato desiderio fu: “Portiamolo via da là”. Ma farlo uscire dalla Bosnia Erzegovina in guerra non era per nulla semplice, richiedeva organizzazione, documenti, autorizzazioni. Cercammo di capire come fare e capimmo di doverci costituire in un qualche organismo: registrammo così un Comitato. Il primo obiettivo del Comitato fu dunque portare fuori Zlatko e la sua famiglia da Mostar. Ci riuscimmo nell’estate del ’94. Dopo una breve permanenza qui a Trieste, andò a vivere con la madre e il padre in Svezia. Da lì nacque poi tutto il resto.

Nel 1998 il Comitato si trasforma in Fondazione, di cui lei sta per assumere la presidenza. Quale la missione della Fondazione e come opera ancora oggi?

La missione della Fondazione è rimasta la stessa: aiutare i bambini che non si possono curare nei loro paesi di origine. Sono bambini che soffrono di patologie particolari, oppure feriti in guerra, e si trovano in una condizione di disagio non risolvibile nel loro paese. Per cui si dà loro la possibilità di venire qui a curarsi, accompagnati da un familiare. Questa è la linea principale della fondazione: cioè che i bambini potessero avere anche bisogno di supporto psicologico, oltre che di cure mediche, e quindi di un luogo, un centro in cui poter essere ospitati assieme ai loro familiari più stretti durante i cicli di cura.

E’ chiaro che poi negli anni le cose si sono sono un po’ modificate. Il conflitto nei territori dei Balcani ha rappresentato, purtroppo, la fonte principale del nostro lavoro considerato l’alto numero di civili e dunque di bambini direttamente colpiti. Per fortuna è poi finito. Però di guerre ce ne sono tante altre nel mondo e quindi i bambini non smettono di arrivare e di esserci segnalati.
Alle famiglie cerchiamo di dare tutto il supporto economico possibile sia per spese mediche sia di viaggio e, in relazione ai tempi delle terapie, li teniamo ospiti nelle nostre foresterie di Trieste garantendo loro viaggi di arrivo e rientro, vitto e alloggio. I nostri volontari provvedono al loro trasporto presso i tanti ospedali con cui abbiamo accordi per le cure necessarie, aiutandoli nell’espletamento delle pratiche mediche, burocratiche e di quant’altro avessero bisogno.

Continuate comunque a dedicarvi a minori provenienti dal sud est europeo?

Certo. Perché nel sud est Europa ci sono paesi in cui la situazione di disagio economico, ma anche di impossibilità delle strutture locali di ovviare alla cura di determinate patologie, persiste. Ad esempio, tra dicembre e gennaio abbiamo avuto ospiti un bimbo di Tirana e uno proveniente dal Kosovo.
Di recente abbiamo anche stipulato una convenzione con il Comune di Trieste, quindi allargando il nostro campo di azione, che prevede noi si possa fornire aiuto e ospitalità a bambini italiani di famiglie che si trovano in temporanea situazione di disagio segnalatici dal Comune.

Avete avviato anche un’altra iniziativa. Ci può dire quale e perché?

Sempre all’interno della Fondazione si è pensato, su idea di Giovanni Marzini (ndr: caporedattore della sede Rai di Trieste) uno dei soci fondatori, di istituire un premio giornalistico internazionale. Il Premio Luchetta è nato sempre per ricordarli, la cui prima edizione si è tenuta nel decennale della morte di Marco, Sasa e Dario. In realtà è intitolato a quattro giornalisti, perché si è deciso di aggiungere anche Miran Hrovatin – ucciso il 20 marzo del ’94 assieme a Ilaria Alpi in Somalia – un operatore triestino che tutti noi conoscevamo bene.

Anche nell’impostazione del premio si decise di dare un taglio che riguardasse i bambini. Per cui tutte le sezioni del premio riguardano le fotografie, gli articoli, i video, la documentazione di vario genere che vedono protagonisti i bambini vittime di situazioni di conflitto armato, contrapposizioni etniche, povertà sociale. Essendo internazionale, partecipano giornalisti di tutto il mondo. Ad esempio nell’edizione dell’anno scorso, tra i premiati c’è Fergal Keane della BBC per il suo servizio televisivo sui bambini uccisi in Siria. Tra pochi giorni renderemo ufficiale il giorno dell’inizio della decima edizione, che si terrà tra fine giugno e metà luglio prossimi.

E’ stata nei Balcani e a Mostar, dopo quel giorno del ’94? E come li vede oggi, i Balcani?

E’ ancora una terra molto sofferta, molto confusa, dove ci sono ancora tensioni che danno la sensazione di poter sfociare in azioni violente. Ad oggi non sono superati una serie di problemi… ammetto che quando leggo o sento qualcosa che riguarda i Balcani di solito vengo presa da una grande angoscia. Il mio sguardo è sicuramente condizionato dalla mia esperienza personale, ma dall’altra è innegabile che sono territori non definitivamente pacificati e difficili da guardare con serenità.

Sono stata a Mostar nel 1999, dove non ero mai andata prima, in occasione di un anniversario della morte di Marco e dei suoi colleghi. Quello che mi ha colpito tantissimo è stata l’umanità delle persone. Mi sono ritrovata circondata da persone che mi hanno espresso un affetto incredibile. In tanti mi sono venuti a dire che erano dispiaciuti per me, per quello che era successo e per il dolore che mi aveva provocato.

Ho provato quasi un sentimento di pudore, di vergogna, perché venivo lì a piangere un marito, che ovviamente per me era stato una persona molto importante. Mentre molte delle persone che mi circondavano di affetto avevano perso in guerra molto più di un familiare. Eppure pensavano al mio dolore anziché al loro! Continuavano a dire che non c’entrava niente con quella guerra e che era venuto lì con intenti di pace. Mi ha veramente commosso e anche oggi ripensandoci mi fa sentire le stesse emozioni, con tanto amore… ecco cosa mi è rimasto. Per cui quando penso ai Balcani penso anche a questo: a persone che nonostante tutto ciò che è successo sanno dare e trasmettere molto.
In qualche maniera quel giorno ho trovato un poco di senso alla morte di Marco. Mi ha colpito, e consolato molto, la frase che mi disse il sindaco di Mostar est: “Il giorno dopo in cui suo marito venne ucciso, abbiamo smesso di essere bombardati. Perché l’attenzione del mondo era concentrata su Mostar est e quindi per noi è stata una cosa incredibile”.

Secondo lei, oggi Marco come racconterebbe i Balcani?

Marco provava una grande curiosità verso i Balcani, sicuramente anche per le sue origini familiari dalmate. Ma soprattutto perché aveva un grande desiderio di conoscere e capire cosa stava succedendo oltre Adriatico. Credo che avrebbe mantenuto questa curiosità, perché quei luoghi li sentiva un po’ anche suoi ma soprattutto perché era nella sua personalità, nel suo carattere, non fermarsi al primo sguardo. Era una persona curiosa, viva, che andava a fondo delle situazioni. Quindi penso non si accontenterebbe di scrivere cose superficiali, continuerebbe a “guardare oltre”.

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