50 anni di donne in magistratura
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50 anni di donne in magistratura

Il 9 febbraio del 1963 fu consentito per la prima volta l’accesso delle donne in Magistratura. E ora? L'analisi della giudice del Tribunale di Roma [Paola Di Nicola]

50 anni di donne in magistratura
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9 Febbraio 2013 - 14.52


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Le donne non hanno mai amato la retorica delle celebrazioni perché la loro presenza è sempre stata cancellata dalla Storia, nonostante ne fossero quotidiane, ma silenti, protagoniste.

Eppure oggi, 9 febbraio 2013, ci troviamo a contare il passaggio di cinquant’anni dalla legge n. 66 che sancì l’ Ammissione della donna ai pubblici uffici ed alle libere professioni “compresa la Magistratura”.

Le poche righe dell’articolo 1 della citata legge includono ed escludono allo stesso tempo; sono scritte per non dimenticare ma, più ancora, per non fare dimenticare.

Per non dimenticare che le donne, per il loro genere, erano escluse dal luogo di potere per eccellenza, come la giurisdizione, per i millenari pregiudizi costruiti appositamente, giorno per giorno, imponendo il monopolio di un unico punto di vista, falsamente universale. “E’ fatua, è leggera, è superficiale, emotiva, passionale, impulsiva, testardetta anzichenò, approssimativa sempre, negata quasi sempre alla logica e quindi inadatta a valutare obiettivamente, serenamente, saggiamente, nella loro giusta portata, i delitti e i delinquenti”: questa la descrizione pervasiva ed umiliante, rimbombata persino nelle aule dell’Assemblea costituente, necessaria per tenere la donna lontana dall’attività interpretativa. Alla fine, dopo estenuanti battaglie politiche, ma più ancora culturali, era stata ammessa.

Per non far dimenticare che una cessione di potere così sofferta non poteva essere gratuita, ma doveva essere bilanciata da un’esclusione simbolicamente significativa. L’articolo 1, dopo averla ammessa in magistratura, al secondo comma lasciava fuori la donna dalle Forze Armate, l’ultimo baluardo del potere maschile: il monopolio del conflitto, la guerra.

Oggi vogliamo ricordare questa legge fuori dai rituali stanchi di una memoria senza memoria, perché i magistrati, per l’istituzione che rappresentano e per il ruolo costituzionale loro assegnato, hanno l’obbligo di essere provocati anche dalla conoscenza e dalla consapevolezza della loro storia.

Non ho trovato sui giornali dell’epoca titoli in prima pagina che raccontassero con l’entusiasmo del traguardo raggiunto, a caratteri cubitali, l’approvazione della legge n. 66 con cui si aprivano le aule di giustizia alle donne sullo scranno più alto e non più solo su quello delle vittime dei reati. Non è un caso. Si era tentato, ancora una volta, con il silenzio, di rendere invisibile la rivoluzione culturale che prendeva il suo avvio, riducendo a pura manovalanza l’ingresso delle donne in magistratura perché “Vi è molto bisogno in tutti i gradi della magistratura di nuove giovani forze per aiutare il disbrigo di molte cause da tempo giacenti”. Un modo sottile per immiserire il senso di una conquista culturale e sociale e per non riconoscere alle donne che il loro ingresso era frutto dell’applicazione dell’articolo 3 della Costituzione Repubblicana violato, ogni giorno, per ben 15 anni.

Dalle 8 donne del 1963, si è passati alle 4006 del 2012 (su 8678 magistrati) con un incremento massiccio che non ha soltanto riequilibrato la presenza dei generi in magistratura, ma ha arricchito l’attività interpretativa offrendo un punto di vista negato e una storia nascosta all’interno del luogo maschile per eccellenza, come è quello dell’interpretazione della legge. Ecco perché 50 anni sono un soffio rispetto alla nostra storia.

Ma essere più donne non basta se non si costruisce la consapevolezza della nostra appartenenza di genere, consapevolezza indispensabile per disarticolare il pregiudizio che ancora si annida, in modo subdolo, dentro e fuori delle nostre aule, e per rompere il tetto di cristallo che vede le donne in una percentuale irrisoria e mortificante negli uffici direttivi (18 % nei Tribunali e 11 % nelle Procure, dati al 2012).

Se è vero, come scriveva Isabel Allende in Paula, che “non mi interessa ciò che mi è accaduto, ma le cicatrici che mi segnano e mi distinguono”, la magistratura, composta da uomini e donne, proprio grazie a queste cicatrici oggi puo’ dire di avere avviato la loro rimarginazione con la scoperta di una toga che avvolge il maschile e il femminile nell’unica prospettiva di offrire un servizio professionale, culturalmente impegnato, sobrio ed efficiente ai cittadini e alle cittadine di questo Paese.

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