Conclave: dagli Usa il moralizzatore barbuto
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Conclave: dagli Usa il moralizzatore barbuto

Ecco perché un papa statunitense è possibile. Il cappuccino O'Malley, barbuto e moralizzatore? Ma il gruppo Usa potrebbe promuovere un sudamericano. [Guido Moltedo]

Conclave: dagli Usa il moralizzatore barbuto
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6 Marzo 2013 - 19.16


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di Guido Moltedo

Un papa con la barba? Sarebbe il primo dopo Innocenzo XII, morto 213 anni fa. E pure americano? Perché no? Quel che un tempo sembrava «a highly unlikely possibility», una possibilità altamente improbabile, come scrive Michelle Boorstein, religion reporter del Washington Post, oggi è considerato uno degli esiti plausibili del conclave che dovrà eleggere il successore di Benedetto XVI. L’idea di un American pope oggi è «thinkable», pensabile, sostiene il più autorevole dei vaticanisti statunitensi, John Allen.

Se così sarà, potrebbe essere l’arcivescovo di Boston, il barbuto frate sessantottenne Sean O’Malley, il nuovo pontefice. Oppure l’arcivescovo di New York, l’effervescente sessantatreenne Timothy Dolan. Oppure il suo coetaneo, l’italo-americano Daniel DiNardo, arcivescovo di Galveston-Houston, che da bambino giocava a dir messa vestito con i paramenti confezionati dalla mamma di fronte a un piccolo altare costruito dal padre. E se davvero dovesse andare a finire così? Non ci sarà di che meravigliarsi, a pensarci bene. Infatti, sono numerose e solide le ragioni che portano in quella direzione.

Innanzitutto, l’America: nel paese un tempo dominato dai bianchi anglosassoni protestanti, con 77.7 milioni di membri registrati, quella cattolica è oggi la più grande singola denominazione religiosa, e, delle popolazioni cattoliche, è la quarta più grande al mondo dopo quelle di Brasile. Messico e Filippine. Questi numeri, specchio della straordinaria rivoluzione demografica in corso in America, si riflettono nella consistenza della pattuglia dei cardinali statunitensi: 19, undici dei quali ammessi tra i 117 del conclave.

I numeri contano. Ancor di più conta lo spirito con cui si entra nella Cappella Sistina. E questa volta gli americani arrivano con l’intenzione di pesare nella scelta del successore di Ratzinger, anche indicandone uno del proprio schieramento. Lo si capisce dall’organizzazione stessa della loro presenza a Roma. «Dal loro quartier generale sul Gianicolo, appena a valle dell’ospedale Bambin Gesù – racconta Alessandro Speciale su Vatican Insider – i porporati americani si preparano al Conclave. Se l’elezione del successore di Pietro si giocasse a squadre, e contasse l’organizzazione dei singoli ‘team’, la chiesa americana sarebbe sicura di vincere a mani basse. Non solo perché la pattuglia di Oltreoceano sarà la seconda più numerosa nella Cappella Sistina, subito dopo la litigiosa armata italiana che da sola vale più di un quarto del Conclave; ma perché nessun altro ha trasferito a Roma armi e bagagli il team della comunicazione della propria conferenza episcopale per assistere il drappello di cardinali chiamati ad eleggere il nuovo papa».

Certo, se si parla con i papabili americani, si ottengono le risposte tipiche di chi non intende vedersi bruciare la candidatura: è «surreale» dice O’Malley, è la suggestione di «uno che fuma marijuana», scherza Dolan. In effetti, sono i cosiddetti Church watchers, i vaticanisti americani, i primi a sollevare quelle che saranno le più ovvie obiezioni da parte di chi americano non è. Un’istituzione millenaria, fortemente ritualizzata e mistica, nelle mani del rappresentante di una nazione in blue jeans? Eppure, obietta Michelle Boorstein, «proprio certe qualità tipiche dell’americano a lungo viste come squalificanti all’improvviso appaiono come punti vantaggiosi. Il rude cowboy del detto-fatto? Forse di questo si ha bisogno per ripulire il Vaticano dalla corruzione. Il secolarismo e il collasso della famiglia tradizionale? Sono temi molto familiari negli Usa, così come gli abusi sessuali nel clero».

L’ostacolo principale è l’immagine nel mondo dell’America, che come annota ancora Michelle Boorstein, è stata vista a lungo come «superpotenza globale, ritenuta succube di Wall Street e della Cia e moralmente corrotta da Hollywood». Ma lo è ancora? Con Obama, molto è cambiato. Non solo per la personalità e la politica del presidente africano-americano, peraltro inviso alle gerarchie cattoliche statunitensi, e in particolare proprio ai cardinali ritenuti papabili. Durante questa presidenza, non potrebbe esserci nessuna sinergia tra un presidente che preme a favore del matrimonio omosessuale e un eventuale papa americano che, da cardinale, ha benedetto le marce antigay o ha guidato l’offensiva contro l’interruzione volontaria della gravidanza (come, appunto, O’Malley, Dolan, che è a capo della conferenza episcopale americana, e DiNardo). Caso mai, l’elezione di un O’Malley o di un Dolan sarebbe un colpo alle politiche liberal della Casa Bianca e condizionerebbe l’elezione del successore di Obama.

Ma, più in profondità, in un mondo così cambiato dopo la caduta del muro di Berlino, l’America non ha più il peso che aveva un tempo ed è gravata da enormi problemi interni che ne condizionano le ambizioni egemoniche. È un paese meno “ingombrante”, tanto che un papa a stelle e strisce difficilmente potrebbe esser visto come il braccio religioso dell’imperialismo.

Le ambizioni a imprimere un segno forte sul conclave sono sostenute dalla silenziosa ma crescente influenza sul papato di Ratzinger della cosiddetta “lobby americana”, come la definisce Massimo Franco nel suo recente e tempestivo “La crisi dell’impero vaticano” (Mondadori). «In un ambiente conservatore come il Vaticano – scrive Franco – il pragmatismo, la potenza economica dei cattolici statunitensi sono novità vistose. E il loro inserimento nei gangli strategici della Santa Sede ufficializza la legittimazione di un punto di vista e di un approccio diverso alle questioni vaticane».

A rendere ancora più «thinkable» l’ipotesi di un papa americano, è il profilo del più quotato dei papabili, Patrick O’Malley, che prendendo gli ordini francescani assunse il nome di Sean. Il cardinale che Giovanni Paolo II inviò nel 2003 a Boston, per sostituire il potente Bernard Law, diventato l’emblema della chiesa che copre la pedofilia, è riuscito a rimettere in ordine l’arcidiocesi, registrando perfino una ripresa della vocazioni. Affabile e semplice, il frate cappuccino che si fa chiamare semplicemente Cardinal Sean, parla bene spagnolo e usa twitter, è diventato l’uomo simbolo della chiesa che contrasta gli abusi sessuali e che, con il suo stile di vita austero e integro, incarna la figura del prelato in saio e con i sandali a contatto con la gente comune, l’opposto dei lussi opachi della curia romana. Riformatore quando si tratta dei nuovi assetti organizzativi e gerarchici del Vaticano e del governo mondiale della chiesa, è un fiero antagonista di ogni idea aperta ai diritti dei gay e all’autodeterminazione delle donne. Ed è proprio questo mix di posizioni che, in un conclave disegnato da Ratzinger nel corso del suo pontificato, ma anche prima come principale consigliere di Giovanni Paolo II, può trovare la maggioranza dei consensi.

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