Roma, 13 aprile 2013, Nena News – Nelle prossime settimane è attesa la decisione della Corte penale internazionale (Cpi) in merito all’ammissibilità del caso contro Saif Al-Islam Gheddafi, figlio dell’ex-leader libico Muammar Gheddafi. Si dovrà decidere se il processo contro Saif Gheddafi dovrà tenersi all’Aia o a Tripoli. Il punto ha scatenato un dibattito molto acceso tra difensori dei diritti umani ed esperti di giustizia internazionale.
Decisione importanteLa Cpi ha emesso un mandato di arresto nei confronti di Saif Gheddafi nel giugno 2011. Gheddafi è stato arrestato da un gruppo di miliziani nel novembre dello stesso anno nella cittadina di Zintan e da allora vi è detenuto in attesa del processo. Il suo caso è estremamente importante poiché costituisce il primo vero test per stabilire come la Cpi interpreterà il principio di ‘complementarietà’ – secondo cui la Corte è chiamata a intervenire soltanto qualora gli Stati non vogliano o non siano in grado di investigare e di istituire azioni penali “genuine” in maniera autonoma.
Nel caso Gheddafi la Libia non si è resa disponibile a concedere la giurisdizione in prima istanza alla Cpi e rivendica il diritto di processare l’accusato a livello nazionale. Il primo maggio 2012 il governo libico ha presentato istanza di inammissibilità alla Corte, rivendicando la propria competenza facendo leva sull’Articolo 19(2)(b) dello Statuto di Roma. L’impasse legale che si è così determinato poggia su alcune delle questioni fondamentali – ma ad oggi ancora irrisolte – che definiscono la relazione tra giustizia nazionale e internazionale secondo la logica della complementarietà.
AmmissibilitàL’Articolo 17 dello Statuto di Roma prevede un test in due fasi per stabilire l’ammissibilità dei casi. In primo luogo, la Corte deve stabilire se siano in corso a livello nazionale indagini o provvedimenti penali sul caso e se essi riguardino la stessa condotta oggetto del mandato di arresto della Cpi. In secondo luogo, la Corte deve assicurare sia la volontà sia la capacità dello Stato di svolgere il procedimento instaurato.
Riguardo al primo punto, lo scorso ottobre la camera preliminare I ha invitato in un’audizione pubblica la Libia a esporre le proprie argomentazioni sulla natura e l’oggetto delle indagini in corso. La Libia ha affermato che le indagini sul caso sono in corso a livello nazionale, ma sia la neo procuratrice Bensouda sia la difesa si sono trovate d’accordo nel ritenere che le prove presentate in merito siano insufficienti per provarlo.
Per quanto concerne il secondo punto, invece, la Corte appare divisa. La Libia si è dichiarata pienamente intenzionata e capace di condurre il procedimento e di esercitare la propria giurisdizione penale. La procuratrice ammette che la Libia sia intenzionata e, viste le condizioni politiche della transizione democratica, anche capace di esercitare l’azione penale. La difesa, al contrario, sostiene che la Libia sia incapace di assicurare un corretto svolgimento dell’azione penale, data la mancanza delle garanzie fondamentali del giusto processo e visti i mancati progressi nell’assicurare assistenza legale all’accusato.
A Tripoli o all’Aia?Il disaccordo interno alla Corte dipende, in larga misura, dal diverso peso attribuito alle garanzie processuali e si riflette all’esterno in un acceso dibattito che divide esperti e osservatori. In nome delle garanzie del giusto processo, si dichiarano a favore dell’intervento della Cpi numerosi accademici ed esperti di diritto internazionale, difensori dei diritti umani quali Amnesty International, Lawyers for Justice in Libya e Redress, ma anche gruppi politici che sostengono Saif Gheddafi e lo stesso Saif.
Sull’altro versante, troviamo chi vedrebbe con più favore una soluzione a livello nazionale. Questo schieramento comprende la Libia insieme ai membri del Consiglio di sicurezza Onu, i quali, pur avendo deferito il caso alla Cpi nel febbraio 2011, non hanno poi mostrato interesse alcuno a che questo fosse effettivamente trasferito al tribunale dell’Aia.
A questo gruppo va aggiunto chi ritiene che lo svolgimento del processo in Libia favorirebbe il consolidamento dell’entità statale libica. Tale approccio al problema pone l’accento sul principio di complementarietà e sull’obiettivo di lungo termine della Cpi di promuovere lo sviluppo dei sistemi giuridici nazionali.
Standard processualiIl dibattito in questione è ricco e stimolante ma tralascia una questione importante legata al contesto in cui la giustizia internazionale si trova ad operare. La Cpi è stata istituita come una corte di ultima risorsa, destinata a intervenire per processare i responsabili dei crimini più gravi. Oltre al principio di complementarietà, il secondo aspetto che contraddistingue il sistema della Cpi è il principio di sufficiente gravità, che opera come una limitazione esplicita della competenza della Corte.
Ciò implica che gli imputati della Cpi siano generalmente figure di spicco, che ricoprono o ricoprirono posizioni di grande potere. Queste figure, per usare una metafora comune, sono la punta di un iceberg che comprende un numero molto più vasto di individui responsabili per i crimini commessi nei territori verso cui si rivolge l’attenzione della Corte.
In Libia, mentre la Cpi ha emanato soltanto tre ordini di cattura per crimini contro l’umanità (nei confronti dell’ex raìs, di suo figlio Saif e dell’ex capo dell’intelligence Abdullah Al-Senussi), a livello nazionale sono già in corso un numero di processi contro figure di primo piano del regime – compreso il primo ministro libico dal 2006 al 2011 – e innumerevoli sono i casi che riguardano personalità compromesse con Gheddafi. Gli stessi dubbi circa la capacità della Libia di garantire un giusto processo sollevati per Saif Gheddafi valgono anche per questi altri casi.
Concedere l’ammissibilità alla Cpi sulla base di un deficit negli standard nazionali di giustizia, dunque, si tradurrebbe nell’applicazione da parte della Corte di una politica discriminante. La Cpi si troverebbe, infatti, a operare un trattamento di favore nei confronti di una classe di pochi “criminali d’élite”, i quali, in virtù del potere detenuto in precedenza, una volta destituiti godrebbero del lusso di avere diritto ad un processo più giusto presso il tribunale dell’Aia.
Nel caso di uno stato che, come la Libia, abbia mostrato di essere intenzionato a procedere, per cui l’impunità è fuori questione, si ritiene che gli standard del giusto processo non dovrebbero rappresentare un fattore determinante nella decisione di ammissibilità del caso.
In tale contesto, la linea politica nell’amministrazione della giustizia internazionale dovrebbe essere piuttosto quella di favorire le soluzioni per garantire la più ampia applicabilità e il rispetto duraturo della giustizia, attraverso l’approccio della “complementarietà positiva”. Esso prevede un ruolo di capacity-building per la Corte, che si troverebbe a supervisionare, monitorare e coordinare un programma di assistenza giudiziaria offerto agli Stati volenterosi di procedere, ma incapaci di farlo secondo standard adeguati.
DisuguaglianzeL’ammissibilità alla Cpi, pertanto, non dovrebbe esistere in risposta ad un problema strutturale, ma piuttosto come conseguenza di un problema individuale: è questo il caso per un imputato che vada incontro a un procedimento fazioso a livello nazionale in virtù di un aspetto specifico della sua condizione o storia personale, per esempio perché ancora in una posizione di influenza o, al contrario, perché a rischio di rappresaglia in uno stato che non sia più in grado di garantirne l’incolumità.
Nel caso in esame, ad esempio, la presunta incapacità del governo libico di ottenere la custodia dell’imputato Saif Gheddafi, tuttora detenuto a Zintan, potrebbe essere una ragione sufficiente per giustificare l’ammissibilità del caso alla Corte.
Al contrario, concedere al figlio del Colonnello Gheddafi il diritto a un (più) giusto processo, rispetto a tutte le altre personalità del precedente regime, sulla base della preoccupazione per gli standard processuali libici potrebbe sollevare seri problemi di ineguaglianza di fronte alla legge tra imputati d’élite e figure di rango più basso.
È difficile immaginare per la Cpi, nei limiti definiti dallo Statuto di Roma, il ruolo di istituzione votata al salvataggio di personalità d’élite – accusate di crimini internazionali – da sistemi di giudizio locali che non soddisfano gli standard internazionali, a discapito di individui di rango più basso. Per ora, resta oggetto di dibattito se tale pratica possa (e debba) trovare spazio tra le disposizioni dello Statuto di Roma.
*Manuela Melandri è PhD candidate presso University College, London.[url”http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2277″]http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2277[/url]http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2277