Movida e gentrification, la morte dei centri storici
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Movida e gentrification, la morte dei centri storici

Con l’avvento – finalmente – di ciò che chiamano il bel tempo, arriva anche un fenomeno umano: la movida. Non solo decibel: è una visione della città. [Miguel Martinez]

Movida e gentrification, la morte dei centri storici
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4 Giugno 2013 - 10.22


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 di Miguel Martinez

Con l’avvento – finalmente – di ciò che chiamano il bel tempo, arriva anche un fenomeno umano di cui vi ho parlato tempo fa, raccontando il seguente episodio:
“Dove abito io,
nell’Oltrarno fiorentino, per qualche caso dell’architettura
rinascimentale, si sente tutto. La notte, quando il traffico è al
minimo, da tre piani sotto la mia finestra sento discussioni in
albanese, chiacchiere di americani, confidenze di innamorati in varie
lingue. Qualche notte
fa, verso le quattro di mattina, mi sveglio per colpa di una signora,
evidentemente di ritorno da qualche locale, che ha deciso di alzare la
voce proprio sotto la mia finestra, parlando con un signore molto più
mite di lei. Dopo dieci minuti, mi stufo e mi affaccio alla finestra.

“Signora, qui vorremmo dormire!”

La gentile
signora mi risponde con un urlo che riverbera dal Torrino di Santa Rosa
su su fino alla chiesa georgiana di Via de’ Serragli:

“Ma vaff…. che c… vuoi, qui siamo nel Centro Stooooorico!”

La visione urbanistica della gentile signora si chiama giornalisticamente movida, e riunisce in sé una serie di caratteristiche. [1] I giovani si vogliono divertire, e i vecchi sono antipatici e odiano la felicità, che così le parti sono chiare.

Ora, non so se sia esattamente così,
visto il gran numero di giovani che sono precari, e il gran numero di
movidari che sono dotati di Suv, nonché di oziosi manager dai capelli tinti che vedi in giro alle tre di notte con seguito di giovani cubane, dominicane o altro.

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Comunque non sono “i giovani” a decidere cosa voglia dire divertirsi: esiste un rigoroso schema pronto per i divertendi.
Divertirsi vuol dire prendere
un veicolo molto grosso e andare nel centro storico della città, all’ora
più tarda possibile (nessuno trova divertente, che so, le sette di
sera, che pure sarebbe un’ora meravigliosa), e mettersi a consumare i
prodotti di alcune specifiche imprese.

La massa di divertendi viene idrovorata in alcuni locali che hanno una struttura che possiamo definire simil-Gedac, cioè imitano per quanto possibile il concetto di locale totalmente automatizzato. Si tratta di locali spesso molto
piccoli, nati come botteghe di artigiani o negozi, i cui proprietari
sono stati cacciati dagli affitti troppo alti. I locali di questo tipo
aprono solo in un orario in cui tutti gli esercizi del posto sono chiusi, e quindi non hanno alcun rapporto con il quartiere, ed è quindi una sciocchezza dire che “portano vita” nel quartiere.

Spazio minimo, massimo numero di consumatori. Non sarà divertente, ma è l’equazione base della razionalità capitalistica. Questo significa innanzitutto che i locali devono essere aperti il massimo delle ore possibili, idealmente fino all’alba. Con la musica ad altissimo volume:
in Inghilterra, i locali hanno versato la bellezza di 65 milioni di
sterline l’anno scorso all’equivalente locale della Siae, e l’hanno
fatto pensando a un ritorno economico ben preciso.
Si tratta di un’estensione della musica di sottofondo che si adopera nei supermercati per controllare i corpi dei clienti, ma con alcune aggiunte.

Tutti i locali di questo genere temono un potenziale sabotatore, rappresentato dal concetto dei vecchietti che giocano a carte tutta la sera, occupando un tavolo e chiacchierando, mentre centellinano un bicchiere di Chianti a testa. Questo deve essere reso impossibile, grazie alla musica al massimo volume, che impedisce ogni comunicazione tra gli avventori. Impedire la
comunicazione tra i clienti stessi ovviamente riduce la comunicazione a
quella tra venditore e consumatore.

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Allo stesso tempo, il ritmo up tempo di tale musica, come dicono in parainglese, accelera tutti i gesti, in particolare quelli di consumo – un consumo che oggi tende sempre di più a essere di superalcolici, cioè di prodotti che, al di là di ogni altro giudizio, rendono molto e occupano poco spazio nel locale.
La musica ad altissimo volume ha però anche una funzione attrattiva, per cui deve potersi sentire anche all’esterno dei locali.

Ogni imprenditore ha per definizione un
dovere fondamentale: deviare i profitti verso se stesso, o verso i
propri investitori; e i costi verso l’esterno. Ecco che il massimo di profitto si ottiene somministrando bevande che vengono consumate all’esterno dei locali:
la gente si gode prodotti e suoni che provengono dall’interno del
locale, ma non occupa il poco spazio fisico disponibile all’interno.
Si scarica prima nei cosiddetti dehors, e poi sulla pubblica strada, portandosi dietro i bicchierini di plastica. Decine di migliaia di divertendi entrano in questo modo, notte dopo notte, in quartieri abitati da poche migliaia di persone, assieme a una musica assordante.

Il problema non è soltanto il diritto di
dormire – cosa che comporta l’accusa di “essere vecchi che non si sanno
divertire” – ma il diritto di fare qualunque altra cosa in casa propria. Anche leggersi un libro in santa pace, o magari sussurrare parole tenere a qualcuno.[2]
I centri storici, poi, sono nati
pensando a pedoni e occasionali cavalli, e lo spazio disponibile per il
parcheggio basta appena ai residenti.
Con la movida, i residenti devono parcheggiare altrove,
per far posto ai Suv degli innumerevoli avventori. E questo obbliga a
una serie di scelte: non spostarsi dal quartiere la sera, oppure
lasciare la macchina in sosta a qualche chilometro di distanza e venire a
casa a piedi. E’ normale che in queste circostanze, un
gran numero di abitanti decida di andarsene dal quartiere. In
periferia, ci sono strade deserte la notte, dove puoi parcheggiare,
palazzi con ascensori, insomma quartieri dormitorio, dove i ricchi vanno
a vivere vicino ai ricchi, i poveri (e gli stranieri) vicino ai poveri
(e agli stranieri). E alla fine avremo un centro storico,
meraviglioso esterno tutto pulito e vuoto, percorso di giorno da turisti
e bancari e di notte da movidari, con un interno fatto di appartamenti
sfitti che cadono a pezzi.
E tutt’attorno, i ghetti con la puzza
sotto il naso dei “bianchi” e i ghetti disastrati dei “neri” (di ogni
colore) sempre più risentiti.

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[1] Altra pittoresca categoria, quelli
che percorrono la strada a passo di corsa, un po’ prima dell’alba,
urlando a squarciagola mentre prendono a calci macchine e cartelli
stradali con incredibile energia.

[2] Senza entrare nell’interessante questione degli effetti della musica su chi lavora nei locali.

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