Non si lasciano soli i figli più belli di questa terra
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Non si lasciano soli i figli più belli di questa terra

Marco Diana siamo noi, quel maresciallo con le mostrine ed il cappello siamo noi: è la nostra cattiva coscienza che vi si specchia.[Emiliano Deiana]

Non si lasciano soli i figli più belli di questa terra
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13 Luglio 2013 - 17.36


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di Emiliano Deiana

Non si lasciano soli i figli più belli di questa terra disgraziata.
Perché la nostra viltà, il nostro silenzio, il silenzio delle istituzioni rappresentative verrà di notte a rendere irrequieto il nostro riposo, il nostro sonno. Verrà a bussare alla porta delle palpebre per celebrare silenzio e viltà: il nostro silenzio, la nostra viltà.

Ciascuno di noi ha conosciuto e conosce quei soldati (mi piace chiamarli così perché c’è qualcosa di epico che la parola “militare” non contiene) che hanno combattuto in Bosnia Erzegovina, in Serbia, in Afghanistan, in Libano, in Somalia; quelli come noi, i nostri compagni di scuola che per sfuggire a un destino di disoccupazione e disperazione hanno scelto la vita militare; i nostri amici, i nostri familiari che quando se l’hanno scelta quella vita si nutrivano dell’illusione che la Guerra si chiamasse Pace e che le azioni di peace skipping fossero davvero delle azioni di interposizione per garantirla la Pace ed evitare la Guerra in quell’altalena anche lessicale completamente toltsoiana. Poi sono intervenute le regole di ingaggio, questo linguaggio burocratico per declamare ciò che ogni umano rifiuta come l’incesto: la guerra, le armi, il delirio nel quale uomini contro uomini combattono e muoiono e a morire, più spesso che in qualsiasi epoca della storia, sono i civili: uomini, donne, vecchi, bambini.
Ma questa è la storia di un soldato, come miei nonni, come i nonni di chi legge queste disgraziate righe; è la storia di Marco Diana, soldato!
Quel soldato ghermito dalla malattia, dal tumore, dalle cellule fameliche che se lo vogliono sbranare e quel soldato rimosso dalla nostra memoria – personale e collettiva – a causa di tutta la nostra assenza, un’assenza colossale, bestiale nella dimenticanza.

Ma la nostra assenza e il nostro silenzio è in tutto e per tutto speculare all’assenza dello Stato, delle istituzioni; al silenzio di quelle istituzioni che non gli pagano le cure mediche ma che sono pronte a spendere 35 miliardi di euro per acquistare nuove armi da guerra, a quelle istituzioni che continuano ad ingrassare la spesa pubblica di spese inutili, evitabili, rimandabili.
Una spesa pubblica che – attraverso le ottusità burocratiche – abbandona Marco Diana al suo destino fatto di sofferenza, di dolore, dello spettro nel quale si specchia il suo viso smagrito, la sua barba che ostinato continua a curare, il suo sguardo perso nel vuoto, gli occhi scavati, tristi.
Bisogna che ancora e per sempre la pubblica opinione ricordi alle istituzioni (Stato, Regione, strutture sanitarie) che quegli occhi sono gli occhi dei nostri fratelli, dei nostri amici, dei nostri compagni di scuola; gli occhi che sono i nostri occhi, occhi che chiedono pace, requie, solidarietà
Marco Diana rischia di diventare una icona dimenticata nella Home Page dei social network, una notizia qualsiasi fra le tante che leggiamo presi da altri effimeri affanni. Invece Marco Diana siamo noi, quel maresciallo con le mostrine ed il cappello siamo noi: è la nostra cattiva coscienza che vi si specchia e riflette e ci ricorda i nostri gusti meschini, le nostre piccolezze, le piccinerie istituzionali.

Marco non è l’icona della guerra, Marco è l’icona dello Stato che non ha saputo difenderlo nell’illusione di una pace da ricercare per altri e nella dimenticanza di una malattia da curare; Marco è la storia di una Stato che occulta le prove di armi pericolose, di armi tumorali che sparano proiettili che uccidono in un tempo differito.
Non per scelta sono andati lì, non solo per vocazione sono andati a fare la guerra pensando di dispensare pace i nostri tantissimi Marco, Giorgio, Francesco ed Alberto; sono andati per bisogno, per il futuro rubato a questa terra, alla nostra gente: alla terra di Sardegna.

Ed è per questo motivo che a Marco Diana dobbiamo garantire l’umanità delle cure, l’umanità della parola, perché il nostro silenzio lo pagheremmo in tutta la deflagrazione che esplode per tutta la nostra viltà (in)civile ed umana.
C’è un film, un piccolo film girato in fra la Sardegna e la Bosnia. Si intitola “Io sono qui”; il regista si chiama Mario Pirredda, è sardo di Badesi. Le immagini sono quelle del mare azzurro di Baia delle Mimose, le immagini di un piccolo bar a Bortigiadas, delle tristi colline bosniache mitragliate di uranio impoverito.

Racconta di una storia in tutto e per tutto simile a quella di Marco.
Il nostro compito è quello (solo quello!) di dargli un altro finale.

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