«Il processo è stato una messa in scena. Voglio sapere come e perchè è morto mio marito. Non ero lì e non posso sapere cos’è successo. So soltanto che la verità non è stata accertata. Ci sono troppe incongruenze, troppi tasselli mancanti. Non sono state acquisite tutte le prove. Hanno sentito me come testimone, che mi trovavo a chilometri di distanza, ma non hanno ascoltato le testimonianze di coloro che sono accorsi subito dopo l’incidente». A parlare è Mariella Zotti. Vive a Casamassima, in provincia di Bari, con i suoi tre figli. Il 9 maggio del 2008 ha perso suo marito, Vito Daniele.
Vito lavorava a Roma, e stava tornando a casa in macchina. Poco prima delle due del pomeriggio, sull’A16, l’autostrada che collega Napoli e Bari, venne fermato e fatto accostare dal tenente Roberto Russo, della Guardia di Finanza. Qualche minuto dopo, fu investito e ucciso da un tir, guidato da Viktor Adamchuk. Il tutto accade all’altezza di Pietradefusi, in provincia di Benevento.
Mariella Zotti, sotto la foto di suo marito Vito Daniele, durante una manifestazione.Il 21 febbraio 2014, nella sentenza di primo grado, il tribunale di Benevento ha assolto il tenente Russo, per non aver commesso il fatto, e condannato a sei mesi, pena sospesa, l’autista del camion. La dinamica di quello che, secondo la versione ufficiale, è un incidente stradale, però, non ha mai convinto Mariella. E lei, da quasi sei anni, cerca di fare chiarezza sulle circostanze della morte di Vito.
«Bisogna premettere che in quel tratto d’autostrada, in quel periodo, c’erano numerosi controlli della Guardia di Finanza, per contrastare il contrabbando e altre attività illegali. Il tenente ha sempre affermato che si trovava da solo e che, mentre guidava, è stato sorpassato a gran velocità dalla macchina di mio marito. A quel punto, ci sarebbe stato un inseguimento a circa centottanta chilometri orari, al termine del quale Vito avrebbe accostato sulla corsia d’emergenza». Già a questo punto, secondo Mariella, sono tante le cose che non tornano. «Innanzitutto, non è stato dimostrata in nessun modo la velocità a cui andava, né con apparecchi elettronici, né in altro modo. La cosa, a dir poco strana, è che il ticket d’ingresso in autostrada è sparito. Si sarebbe potuto calcolare, facendo una media con l’orario d’entrata, a quale velocità viaggiasse mio marito. Sarebbe potuta essere addirittura una prova a favore del tenente. Ma è sparito. Neanche l’inseguimento è stato dimostrato: fuori dalle gallerie ci sono delle telecamere. I filmati non sono mai stati acquisiti come prove. E poi, che motivo ci sarebbe di fermarsi, se si è cercato di scappare? Vito non aveva nulla da nascondere: non aveva precedenti e nella sua macchina non è stato trovato nulla. Era una persona per bene. E c’è ancora un’altra stranezza: come fa un uomo, mentre guida a centottanta all’ora, a estrarre la paletta per fermare un’altra auto, se è da solo? Le persone accorse subito dopo il fatto hanno detto che gli uomini della Finanza sul posto, prima che arrivasse la polizia Stradale, erano due. Tutti questi elementi fanno pensare a un errore da coprire a tutti i costi. Sembra quasi studiata a tavolino».
Il punto dell’A16 dove ha perso la vita Vito Daniele.Quel che insospettisce Mariella sono proprio le testimonianze delle persone che si trovavano sul luogo dell’incidente. «Un testimone mi ha detto di aver visto Vito fermo, nella corsia d’emergenza, a parlare al telefono, a duecento metri circa da dove è stato investito. Se fosse vero, non sarebbe stato fermato mentre guidava. Altri testimoni hanno affermato di aver visto i bagagli di mio marito sull’asfalto, come se lo avessero perquisito, il che, visti i controlli frequenti nella zona, sarebbe plausibile. Poi c’è la questione della posizione delle macchine e del corpo: il tenente ha detto di aver spostato la sua auto a protezione del cadavere, e la Stradale conferma nel verbale. Il problema è che i testimoni dicono che la macchina è stata spostata ore dopo il fatto. La cosa davvero grave è che nessuna di queste persone è stata ascoltata al processo. Sono stati considerati inattendibili. Chi, più dei testimoni diretti, poteva aiutare a ricostruire gli avvenimenti? Davanti a me, ho trovato un muro di gomma, ho dovuto indagare da sola, pagando un investigatore privato. Ho anche scritto al Presidente della Repubblica, e la mia lettera è stata letta in aula dal giudice. Ma nessuna delle prove che ho portato è stata acquisita».
«Non sapevo di doverla richiedere», continua a raccontare Mariella, «quindi sul cadavere di Vito non è stata fatta l’autopsia. Non ho potuto neanche vedere il corpo. Conoscevo mio marito: non sarebbe mai scappato e non sarebbe mai sceso dall’auto, soprattutto se un membro delle forze dell’ordine gli avesse ordinato di non farlo. Se anche fosse sceso, avrebbe fatto attenzione, e non avrebbe camminato praticamente in mezzo alla strada. Non si rischia la vita per paura di una multa. Anche il camionista ha detto che aveva visto le macchine ferme, a una distanza di circa trecento metri. Come è stato possibile che non lo abbia saputo evitare? Lo hanno voluto far passare per un imprudente e gli hanno fatto il processo da morto. È questo che non riesco ad accettare. Ed è per questo che da quel processo sono uscita. Sono piena di debiti e devo pensare ai miei figli. Il problema, nei casi come il mio, sono le procure, che coprono le forze dell’ordine e stanno al gioco. Le indagini non hanno accertato nulla, ma io continuerò a cercare la verità sulla morte di mio marito. Non so cosa è successo quel giorno, ma qualcosa è andato storto, c’è stato un errore. E la verità è stata nascosta».
«Giustizia per Vito». Uno striscione per chiedere che la vicenda di Vito Daniele sia chiarita e che la verità sia finalmente accertata.