Morto nei campi sotto l'afa, la moglie: mio marito era uno schiavo
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Morto nei campi sotto l'afa, la moglie: mio marito era uno schiavo

E' morto per un colpo di calore mentre raccoglieva pomodori in un'azienda tra Nardò e Avetrana. I titolari della ditta e un caporale sono indagate per omicidio colposo.

Morto nei campi sotto l'afa, la moglie: mio marito era uno schiavo
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27 Luglio 2015 - 12.31


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Mohamed, sudanese 47enne, è morto per un colpo di calore mentre raccoglieva pomodori in un’azienda agricola tra Nardò e Avetrana e tre persone (i titolari della ditta e un caporale) sono indagate per omicidio colposo. Oggi sulla [url”Reppublica di Bari “]http://bari.repubblica.it/cronaca/2015/07/27/news/nardo_la_moglie_del_sudanese_morto_nei_campi_sotto_l_afa_mohamed_e_morto_da_schiavo_-119869000/?ref=HREC1-14[/url] l’intervista alla moglie Marian, quarant’anni, una figlia di tre e uno di 16. Da lunedì non ha più un marito. E’ arrivata in Puglia, per riprendersi la salma del compagno che aveva scelto per la vita e riportarla in Africa. L’intervista è di Chiara Spagnolo.


Che effetto le ha fatto?

“Quando sono entrata mi è venuto un brivido, neanche gli animali vengono trattati così. In questa casa che non si può chiamare casa non c’è posto per l’umanità. Gli amici mi hanno fatto vedere dove dormiva Mohamed e mi hanno fatto prendere i suoi oggetti: i vestiti, le chiavi di casa, poche cose che si portava dietro quando partiva per lavoro “.

Lui si spostava in diverse regioni per lavorare?
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“Aveva già fatto la raccolta dei pomodori a Crotone, l’anno scorso, ma anche in provincia di Siracusa, e quest’anno aveva partecipato alla raccolta delle patate in Sicilia”.

Com’era arrivato qui?

“I lavoratori sono organizzati a gruppi in base alle etnie, si conoscono, sono parenti non di sangue ma di tribù, e quando uno ha bisogno di lavorare sa chi chiamare. Dopo le patate, il gruppo è venuto a Nardò”.

Pensava di tornare a casa a settembre?

“Così era previsto. Lui era un ottimo padre, prima che un buon marito, affettuoso con i suoi figli e con me, mi difendeva in qualunque situazione e si prestava a fare qualunque lavoro per mantenerci. Viviamo con molte difficoltà, mio figlio maggiore ha dovuto lasciare la scuola perché non riuscivamo a mantenerlo, ma ancora è troppo piccolo per lavorare e mio marito pensava a tutto”.

Da quanto tempo viveva in Italia, com’era arrivato?

“Su un barcone, come tutti. Dal Sudan si era spostato in Libia per lavorare e da lì nel 2006 era partito per l’Italia sperando di fare una vita migliore. Aveva ottenuto lo status di rifugiato politico. Ci siamo conosciuti sei anni fa e poi sposati, era un uomo religioso e preciso, non fumava, non beveva, non mancava mai a una preghiera”.

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Al telefono le aveva raccontato come si era sistemato?

“No, non sapevo che stesse in quel posto, senza luce né acqua, anche se altre volte, quando è tornato dalla raccolta in Sicilia o in Calabria, mi ha raccontato di posti come questo, in cui dormivano a terra e facevano i bisogni sotto gli alberi. Io non ci sono mai andata, le donne non vanno in quei posti”.

Vi siete sentiti la mattina del giorno in cui è morto.

“Era contento, stava bene, faceva caldo ma non mi ha detto che stava male. Lui non aveva mai problemi, era forte, non era malato, io non so cosa sia successo “.

Lei ha deciso di riportare il corpo di Mohamed in Sudan.

“Quello è il suo posto, vicino alla sua famiglia: siamo molto religiosi, è lì che deve stare. Ma io non ho i soldi per farlo, siamo gente povera, si stanno occupando di tutto Comune e Regione”.

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E dopo cosa farete?

“Non ne ho idea, non abbiamo nulla e non abbiamo parenti in Italia. Senza Mohamed non so che ne sarà di noi”.

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