Il suono della campanella ci sorprende qui, nel seminterrato, dove pranzavano gli studenti liceali. Ora non c’è più niente: via i tavoli e le sedie, sparito ogni altro segno della presenza di un istituto superiore. Rimangono i muri, con le tracce delle attività didattiche impressi dalla polvere, i graffiti sulle porte dei bagni (“Paolo frocio”, diventato nel tempo un più colto “Paolo procio”) e qualche scartoffia a volteggiare in bidelleria. Gli immobili così, rimasti nudi e crudi, hanno quasi sempre qualcosa di magico e triste.
Ed è proprio la campana a sigillare quest’atmosfera surreale con la sua ottusa allegria, come se nulla fosse cambiato, come se fosse ancora urgente separare l’ora di latino da quella di matematica. E invece questo ex istituto religioso, a suo tempo intelligentemente convertito a scuola superiore, da un anno è vuoto e disabitato; una delle tante strutture di proprietà delle congregazioni religiose in cerca di una nuova destinazione, tra vendite auspicate, future utilità intraviste e la dura realtà di un mercato immobiliare fermo, a fronte di un investimento molto sostanzioso per poter ripartire, in un modo o nell’altro.
Siamo qui, con la proprietà, a valutare l’utilizzo di una parte di questo edificio per l’accoglienza di rifugiati e richiedenti asilo, in missione per conto della Prefettura. Si tratta di ipotizzare le nuove funzioni degli ambienti, di stimare i costi per il ripristino degli impianti, ma anche di valutare il contesto sociale e urbanistico nel quale si andrebbe a impiantare questo ennesimo servizio di emergenza.
Perché è di emergenza che si continua a parlare, come emergenziali rimangono le condizioni in cui finiscono per lavorare gli operatori sociali. In questa penombra, a dire il vero, si attutisce il rumore delle cronache e delle polemiche di queste settimane attorno alle vicende dei profughi e dei rifugiati, dai Balcani al mediterraneo. Si è levato un vento impetuoso che ha portato finalmente qualche nota di speranza, a partire dalla svolta tedesca, dalle marce a piedi scalzi e dagli sforzi della UE di cambiare rotta. Forse potremo dire addio al Regolamento di Dublino con le sue storture e rigidità.
Dovremmo essere contenti. E lo siamo. Ma la bufera mediatica, come quasi sempre accade, stordisce gli addetti ai lavori sociali con il suo volume e i suoi toni accesi. Ci si sente un po’ distonici, quasi mai centrati: quando non hai i riflettori addosso rischi di sentirti solo e in una non sempre piacevole posizione di minoranza controcorrente; quando però i mass media e l’opinione pubblica sono forzati a porre l’attenzione sui temi di cui ti occupi tutti i giorni, avverti con chiarezza come prevalga il piano puramente ideologico – essere pro o contro l’accoglienza – di per sé insufficiente e pericolosamente inclinato.
Insomma, è davvero confortante avvertire che la solidarietà e la prossimità riprendono fiato, rappresentati finalmente con chiarezza da alcuni governi europei e condivisi da porzioni consistenti e non silenti della società civile; eppure, senti che diventa determinante mettere finalmente mano alla qualità della nostra accoglienza nei confronti di profughi e rifugiati. Il nostro Paese, si sa, è da tempo al centro delle rotte dei migranti di ogni tipo, in particolare di profughi in fuga dai disastri mediorientali e nordafricani. Ma questo tempo ormai lungo non ha ancora fatto maturare un’accoglienza con un senso e un orizzonte definiti: i tempi di risposta alle domande di asilo rimangono troppo lunghi, i posti del Servizio di protezione “ordinario”(lo Sprar) ancora insufficienti e assolutamente indeterminata la politica nei confronti di coloro che non avrebbero diritto a una protezione.
Il modello per l’accoglienza dei profughi, fuori dai meccanismi dello Sprar, rimane ancora marchiato dall’assistenzialismo e dal pressapochismo, elementi che alla fine – lasciando migliaia di persone nell’inedia e nell’incertezza – gioca a favore di chi si schiera, ideologicamente, contro l’accoglienza.
Il giro della scuola finisce e usciamo nell’abbaglio del cortile vuoto. Tendiamo le orecchie, per sentire se suona ancora la campanella: per segnare l’inizio di una nuova fase, non più emergenziale, della nostra accoglienza.