Dunque, bastavano 24 ore, ventiquattrore e Paolo Borsellino avrebbe messo nero su bianco tutto quello che sapeva sulla morte di Giovanni Falcone, tutto quello che con Giovanni condivideva: nomi e cognomi dell’intreccio assasssino tra mafia, politica, imprenditoria e fette acide della torta Stato. Ma Paolo Borsellino è stato eliminato 24 ore prima che andasse a Caltanissetta, in Procura, per verbalizzare (verba volant…) quel che aveva condiviso col suo amico Giovanni Falcone, quello che gli era rimasto dentro e lo avrebbe portato a via D’Amelio.
Capaci, 23 maggio del 1992, via D’Amelio 19 luglio del ’92.
Prima Giovanni, poi Paolo. Il figlio di Paolo, Manfredi al processo: “Il giudice Paolo Borsellino, dopo la morte di Giovanni Falcone, attendeva con ansia di essere interrogato dai magistrati della procura nissena, a tal punto che una volta disse pubblicamente: “Io qui non vi posso dire nulla, ciò che ho da dire lo dirò ai magistrati competenti”. Ha aggiunto Lucia Borsellino: “Si, mio padre aveva quell’agenda rossa”. Agenda mai trovata, dove Borsellino annotava tutto. E nel tutto ci saranno stati date, ore, nomi, telefonate, appuntamenti. Trovarla avrebbe aiutato anche a ricostruire quel percorso che lo avrebbe portato davanti ai magistrati di Caltanissetta per parlare., i motivi e le “mani” di via D’Amelio A Caltanissetta, per essere un fiume in piena e dire quello che si era tenuto dentro, con rabbia.
Cosa Nostra e forse non solo Cosa Nostra – ricorda l’amico Francesco Viviano, su Repubblica – aveva paura di quel che Paolo Borsellino sapeva sulla morte del suo amico Giovanni Falcone e che sarebbe andato a dire il 20 luglio del 1992 ai suoi colleghi di Caltanissetta, titolari del’inchiesta sulla strage, con i quali aveva concordato un appuntamento per la sua testimonianza. Ma non ne ha avuto il tempo perché appunto, 24 ore prima, fu assassinato davanti l’abitazione della madre in via D’Amelio dove fu fatta esplodere una Fiat 126 imbottita di tritolo. La mafia, ma non solo. La mafia è sintesi di politici criminali, di finanza criminale, di consorterie criminali, di settori criminali dei Servizi. È sintesi del male legato all’industria del male per il denaro e il potere. E a Capaci e via D’Amelio i protagonisti di questa “Suburra” che accompagna la Storia d’Italia c’erano tutti. Facile per loro avere talpe che li aiutassero a sapere i movimenti di Giovanni, i movimenti, le intenzioni e gli appuntamenti di Paolo. E così è stato.
Chi sapeva che Paolo – ricorda, infatti, Francesco Viviano – il giorno dopo sarebbe andato a raccontare la sua verità sulla morte del collega ed amico fraterno Giovanni Falcone? Una talpa che sapeva che quel 19 luglio Borsellino sarebbe andato a trovare la madre in via d’Amelio e che il giorno dopo sarebbe andato a testimoniare a Caltanissetta? Interrogativi che si aggiungono agli altri tanti interrogativi e depistaggi che ruotano attorno alla strage in cui fu ucciso Paolo Borsellino che la Procura di Caltanissetta cerca di risolvere ma con molte difficoltà. E che Borsellino avesse tante cose da dire sulla morte del suo amico Giovanni Falcone, lo aveva preannunciato il 19 giugno del 1992 quando nell’atrio della biblioteca comunale di Palermo partecipò ad un dibattito organizzato da Micromega. In quell’occasione Paolo Borsellino davanti ad una folla di palermitani indignati che riempiva la biblioteca comunale aveva detto: “In questo momento, oltre che magistrato, io sono testimone”. Borsellino non volle andare oltre, ma nel suo sguardo c’era la rabbia di chi sfida gli assassini e i mandanti. Gli occhi dicevano: Voi sapete che io so, voi sappiate che dirò le vostre trame e i vostri nomi.
Bastavano 24 ore, ma come capita troppo spesso, la mafia ha modo di arrivare prima. O di andare via prima, quando si potrebbe mettere le mani su un capo in fuga.
Borsellino non poté parlare a Tinebra, allora Procuratore di Caltanissetta, e dopo un lutto, un altro lutto. Dopo le stragi quel risveglio delle coscienze di cui parlò Antonino Caponnetto in un lungo ricordo che chiesi e ottenni per “Suddovest”. Un ricordo di Giovanni, e di Paolo, a sua firma, a caldo, subito dopo quell’estate di sangue. In quel ricordo affidato a un periodico siciliano che della legalità faceva una delle sue ragioni, il padre del pool antimafia di Palermo, svelò il”soggiorno obbligato” al quale si erano sottoposti Giovanni e Paolo mentre preparavano i 40 volumi dell’ordinanza- sentenza che costituì la base del primo”maxiprocesso”.
“Avevano vissuto, pur tra difficoltà e avversità di ogni genere, una stagione esaltante, turbata soltanto dal”soggiorno obbligato” cui Giovanni e Paolo ed i loro familiari furono costretti per 15 giorni – nell’estate 1985 – presso l’isola dell’Asinara per sottrarli a grave ed incombente pericolo, segnalatomi tempestivamente da una persona di assoluta fiducia e credibilità”, scrisse Caponnetto affidandoci un episodio inedito. Quindici giorni fermi, senza poter lavorare alla mole di materiale che avevano raccolto.
Era il 1985 e l'”inseguimento” era già cominciato. Dal 1985 all’estate del’92.
Rileggendo il ricordo di Giovanni fatto a “Suddovest”, scorriamo. ..Il primo colloquio, telefonico con Falcone “per pregarmi di prendere possesso al più presto del mio nuovo posto di Consigliere Istruttore” di Palermo. “Mi colpì il fatto – scrive Caponnetto – che, pur senza esserci mai visti prima e al di là di ogni differenza di età e di funzioni, fin dal primo momento ci chiamassimo per nome, come vecchi amici. Capii subito che il nostro sarebbe stato come un rapporto di piena collaborazione e di fraterno affetto”. Caponnetto ricorda il lavoro comune ma anche, a partire dalla primavera dell’85, “una velenosa campagna di stampa, ben congegnata e diretta a delegittimare i cosidetti”pentiti” e con loro i magistrati che ne raccoglievano e utilizzavano le dichiarazioni”, dall’altro a criticare i “maxiprocessi” come “risposta rudimentale al fenomeno della criminalità organizzata”. Falcone attaccato, e “non amato, anche all’interno del Palazzo di Giustizia – ricorda Caponnetto, aggiungendo, con amarezza: “e ci siamo trovati tutti, pochi giorni fa, ai lati della sua bara…”.
È il 1987, Caponnetto chiede di tornare, dopo 4 anni, a Firenze. Gli sembrava scontato che fosse Giovanni a ricoprire la carica di Consigliere istruttore. Una “successione naturale”, ma la sera del 19 gennaio 1988 il CSM gli preferì Antonino Meli. “Credo ancor oggi – scrive Caponnetto – che quella sera Falcone “cominciò a morire” ( citando un articolo di Pansa ), sia per la delegittimazione inflittagli, pur se coperta da una infinità di elogi, sia per il”tradimento” di alcuni colleghi che si dichiaravano suoi amici fraterni e che gli avevano assicurato il proprio voto favorevole”. Caponnetto aveva avuto sentore del “tradimento”, e aveva deciso di inviare un telegramma al CSM per chiedere di revocare il trasferimento a Firenze, non ancora pubblicato sul”Bollettino ufficiale”.”Ero disposto, pur di evitare la temuta disgregazione del pool, a rimanere altri due anni a Palermo, per consentire a Giovanni di ultimare le grandi inchieste ancora in corso”. Era stato Falcone a chiedergli che spedisse quel telegramma.”Erano le 20.30 e non trovammo alcun commesso a cui affidare l’incombenza. Rinviammo tutto all’indomani mattina, ma alle 9.00, entrando nel mio ufficio con le solite due grosse borse che non abbandonava mai- ricorda Caponnetto – Giovanni mi riferì di aver scambiato, nella notte, diverse telefonate, dalle quali aveva tratto la ragionevole sicurezza di spuntarla, sia pure di misura”. “Quel telegramma non partì, e la votazione ebbe l’esito che ognuno di noi ricorda – scrive Caponnetto – io, in partiicolare, porto sempre con me, da allora, i nomi, stilati dalla mano di Giovanni, dei favorevoli, dei contrari e degli astenuti”.
“Interessi di bottega”, dirà lo stesso Caponnetto. Inizia lo scontro Meli-Falcone. Borsellino passa a Marsala. Continua la campagna di stampa contro Falcone e il “clan del pool antimafia”. Continua “la strategia di frantumazione dei processi sostenuta da Meli e fatta tempestivamente propria dalla Cassazione”. Cresce l’amarezza e lo sconforto di Falcone. Nuova delusione,il Parlamento gli preferisce Domenico Sica alla Direzione dell’Alto Commissariato contro la mafia e la sua corrente gli nega i pochi voti necessari per essere eletto al Consiglio Superiore della Magistratura.. E’nell’estate del 1989 che la campagna contro Falcone si fa veemente. “Menti raffinatissime” pensano alla bomba dell’Addaura. Falcone che si sente – confida a Caponnetto -“un leone in gabbia”. “Questo spiega il suo passaggio al Ministero di Grazia e Giustizia”. Nuova ondata di polemiche:”Soprattutto quando si conobbero le linee fondamentali del progetto per l’istituzione della Superprocura Nazionale Antimafia. Accuie roventi:”traditore”, “venduto al Palazzo” e simili”, ricorda Caponnetto. Che ricorda anche di aver difeso Falcone in una intervista nella quale diceva che”era stupido ritenere che un magistrato come Giovanni fosse condizionato dal potere e aggiogato ad un carro politico”. Falcone si affrettò a telefonare a Caponnetto”per esprimermi, con voce commossa, la sua gratitudine. Fu quello il nostro ultimo colloquio telefonico”. Rileggendo il ricordo di Caponnetto, poi c’è il lutto, poi c’è l’indignazione: “Il pianto, le grida, le reazioni dei palermitani rappresentano – chiudeva Caponnetto – già in tanto buio e in tanto sconforto, un primo motivo di fiducia e di speranza”. Il resto, è un’altra storia. Forse la stessa storia.