Dallo sbarco all’hotspot, all’espulsione. Come si decide il destino dei migranti
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Dallo sbarco all’hotspot, all’espulsione. Come si decide il destino dei migranti

Il racconto dall’interno del centro di Pozzallo di un operatore di Medici senza frontiere: siamo disorientati, quello che accade è raccapricciante.

Dallo sbarco all’hotspot, all’espulsione. Come si decide il destino dei migranti
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6 Novembre 2015 - 19.12


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Distinzioni arbitrarie tra migranti economici e richiedenti protezione internazionale, espulsioni lampo, metodi ingannevoli per ottenere le impronte, poche informazioni ai profughi sui loro diritti e il loro destino. A raccontare quello che accade da un mese nell’hotspot di Pozzallo ( uno dei cinque centri di smistamento per le domande di asilo identificati dal ministero dell’Interno) è Francesco Rita, psicologo di Medici Senza Frontiere, che lavora nel centro di prima accoglienza.“Quello che succede è raccapricciante” sintetizza senza mezzi termini, durante un convegno organizzato a Roma dall’associazione Laboratorio 53. In particolare, Francesco spiega qual è ormai la prassi da quando un barcone in difficoltà lancia l’allarme a quando i profughi vengono portati in Puglia o in Sicilia con una nave militare. “Al porto ci sono tutti, carabinieri, polizia, Croce Rossa, funzionari di Frontex –afferma-. Prima sale l’Usmaf (Ufficio di sanità marittima, ndr) che controlla lo stato di salute dei naufraghi, che poi scendono in fila indiana, a piedi nudi, frastornati. La polizia fotografa il viso di ciascuno e fornisce un braccialetto. Poi i profughi sono portati in pullman per i 20 metri che separano dalla tenda triage di Msf”. Qui si indaga sulle condizioni di salute, per isolare eventuali casi di tbc o scabbia, e poi vengono perquisiti, “tolgono tutto, lacci, cintura, monete”. Al Cpsa (centro di primo soccorso e accoglienza), poi, “un funzionario di Frontex fa le domande anagrafiche, a cui negli ultimi tempi ne è stata aggiunta una: ‘perché sei qui?’ se la risposta è ‘per lavorare’ saranno espulsi in due giorni, anche se non sanno perché, anche se non sanno cosa significa asilo, anche se sono costretti a rispondere dopo giorni di mare, in cui hanno rischiato di morire”.

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I dubbi nella normativa, tra identificazioni forzate e fermi amministrativi. L’avvio della sperimentazione degli hotspot è coincisa con l’entrata in vigore a settembre del decreto legislativo 142, che dà attuazione alle direttiva europee 2013/33/UE e 2013/32/UE relative all’accoglienza e alle procedure per il riconoscimento della protezione internazionale. “Questo decreto risponde alle pressioni europee perché l’Italia si doti di un sistema efficace di identificazione: lo scorso anno, su 170 mila persone sbarcate, ne sono state identificate solo 70 mila – spiega Salvatore Fachile, avvocato Asgi che insieme alla collega Loredana Leo cerca di fare chiarezza sulla normativa -. In cambio l’Europa suddivide una percentuale dei rifugiati nei diversi paesi. La legge ha una terminologia burocratica, la road map usa invece il linguaggio mediatico con le parole ‘hotspot’ e ‘hub’. L’hotspot adottato dall’Italia è un metodo per distinguere appena sbarcati i richiedenti asilo dai migranti economici, che prevede un gruppo formato dalla polizia italiana, dai mediatori della polizia, dai commissari di Easo e Frontex e Europol, affiancati dall’Unhcr, che preidentificano la persona e le chiedono se ha intenzione di richiedere asilo. In questo caso la persona sarà indirizzata agli hub, gli ex Cara, se invece non richiede asilo viene avviata direttamente all’espulsione attraverso un Cie o un decreto di respingimento o espulsione”. Il punto centrale. continua Fachile, è che “la legge non parla mai di luoghi chiusi – sottolinea – questo comporterebbe, infatti, una nuova procedura di trattenimento della persona, che porterebbe con sé le garanzie costituzionali e il controllo giurisdizionale. Mentre nella road map è così. E non possiamo neanche riferirlo all’articolo 14. L’altro aspetto critico, secondo gli avvocati dell’Asgi, è che “la legge non parla mai di identificazione forzata: il fermo amministrativo può durare solo 72 ore avvisando un giudice. Il governo agisce di fatto. Noi però ci chiediamo quali metodi saranno applicati per le persone che continuano a fare resistenza passiva. Ci sono voci di singoli casi, non sistematici. Però nell’Agenda europea sulla migrazione 2015 si parla di ‘forza solo in casi estremi’, mentre sono circolati volantini, senza loghi, contenenti informazioni sulle forme di coazione fisica. Ci troviamo davanti al rischio di quello che durante il fascismo era il fermo amministrativo senza controllo giurisdizionale. A poco a poco passa l’idea”. Fachile, sottolinea infine che ora “sia gli hotspot che gli hub non sono più luoghi di polizia, ma del terzo settore, con l’aiuto degli operatori, che saranno invischiati in questi metodi”.

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Le impronte? Si ottengono con l’inganno. Uno dei problemi centrali resta quello delle identificazione: molti profughi, infatti, non vogliono farsi prendere le impronte in Italia per poter proseguire il viaggio verso i paesi del Nord Europa.“Gli inganni per ottenere le impronte, soprattutto per gli eritrei che sono più restii, è dire che non saranno usate, oppure il trattenimento a oltranza – continua Francesco Rita, operatore di MSF -. I migranti considerati economici in due giorni vengono messi alla porta con un decreto di espulsione con mezzi propri: ma non capiscono, e restano davanti al cancello finché non dicono loro di andare via, e allora si disperdono nelle campagne circostanti, andando a ingrossare le fila del lavoro nero. 38 espulsi hanno vagato per Pozzallo sotto la pioggia finché il sindaco è intervenuto facendoli rientrare, un altro si è lamentato talmente tanto che il poliziotto gli ha stracciato il decreto e lo ha fatto rientrare. Il fatto è che alcuni poliziotti ci hanno detto informalmente che hanno delle quote di espulsione da rispettare, indipendentemente da chi arriva”.

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Poche informazioni ai migranti: non sanno niente su cosa li aspetta. E finiscono nei Cie. L’altra criticità riguarda l’informativa: “L’Unhcr cerca di dare qualche informazione davanti al triage, o nei 20 metri che separano il porto dal centro, ma la verità è che l’informativa non c’è”, sintetizza Francesco. E spiega che se una persona cambiasse idea e facesse domanda di asilo, avrebbe una commissione dentro al Cie, dove può rimanere fino a 12 mesi. Se impugna il diniego, il giudice potrebbe riesaminare la pratica, giudicare nel merito, ma non ha il potere di far cessare l’effetto di ciò che sta giudicando, non può sospendere il trattenimento. “Questa cosa ha lasciato perplessi anche i magistrati”, aggiunge Francesco. “Siamo davvero disorientati, stiamo discutendo se rimanere nel Cpsa – conclude lo psicologo di Medici senza frontiere -. Al momento sì, ma ci chiediamo anche come rispondere a questi metodi, insieme agli altri attori istituzionali, abbiamo visto espellere bambini, donne incinte, e l’unico modo per evitarlo è dichiarare che sono sotto qualche trattamento medico”.“C’è una tendenza all’allargamento dei Cie, che si accompagna al sistema degli accordi intergovernativi con paesi che riconoscono i propri cittadini, accettano il rimpatrio, anche sotto la velata minaccia del taglio dei fondi umanitari”, aggiunge Fachile, di Asgi.(Elena Filicori)

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