Anche la Corte d’assise d’appello di Torino ha, infine, detto l’ovvio: che l’incendio di un compressore nel cantiere del Tav della Maddalena di Chiomonte (a seguito di un’azione dichiaratamente finalizzata solo contro le cose e priva, in concreto, di qualsivoglia effetto sulle persone) è un reato ma non un attentato con finalità di terrorismo. Lo aveva già detto la Corte di primo grado, nella sentenza 17 dicembre 2014, usando parole di elementare buon senso: «Pur senza voler minimizzare i problemi per l’ordine pubblico causati da queste inaccettabili manifestazioni, non si può non riconoscere che in Val di Susa — e a fortiori nel resto del Paese — non si viva affatto una situazione di allarme da parte della popolazione e se il contesto in cui maturò l’azione non era oggettivamente un contesto di particolare allarme, neppure l’azione posta in essere rivestiva una ’’natura’ tale da essere idonea a raggiungere la contestata finalità».
E lo aveva confermato la Corte di cassazione con due sentenze emesse in sede di impugnazione contro misure cautelari, tanto che — nel processo parallelo contro tre altri imputati — la stessa Procura aveva rinunciato alla contestazione del reato di terrorismo. Ma, evidentemente, tutto questo ancora non bastava se il Procuratore generale in persona ha voluto esibirsi in una prova di incomprensibile accanimento accusatorio chiedendo alla Corte il ribaltamento della sentenza di primo grado.
La speranza, a questo punto, è che si chiuda definitivamente non solo la vicenda processuale di quattro giovani (costretti a una custodia cautelare in carcere di oltre un anno in condizioni di sostanziale isolamento) ma anche una stagione di repressione senza precedenti nei confronti del movimento No Tav.
È una stagione iniziata nel gennaio 2012, con una serie di misure cautelari a pioggia per fatti di resistenza di sette mesi prima, in cui la magistratura inquirente ha assunto un ruolo di diretto protagonismo nel contrasto del conflitto sociale e nella tutela dell’ordine pubblico. Non si è trattato del doveroso esercizio dell’azione penale, ma di un intervento la cui durezza e sistematicità, lungi dall’essere “obbligate”, sono state determinate da precise scelte discrezionali.
Nulla, infatti, hanno a che fare con l’obbligatorietà dell’azione penale fenomeni e prassi come l’attribuzione di una corsia privilegiata ai processi nei confronti di esponenti No Tav, la coreografia che circonda i relativi dibattimenti (celebrati in un’aula bunker annessa al carcere costruita per i processi di terrorismo e mafia), l’istituzione presso la Procura di un pool di sostituti con competenza esclusiva nel settore (solo di recente smantellato), l’immediato e sollecito perseguimento — in caso di collegamento con l’opposizione al Tav — anche di reati di minima entità sanzionabili con la sola pena pecuniaria, l’uso massiccio delle misure cautelari persino nei confronti di incensurati, la dilatazione delle ipotesi di concorso nel reato fino a costruire una impropria «responsabilità da contesto», l’utilizzazione nelle motivazioni di sentenze e ordinanze di espressioni truculente (quasi a supportare o sostituire i fatti con gli aggettivi), l’omessa considerazione di scriminanti e attenuanti pur previste nel sistema (talora addirittura dal codice Rocco), l’accurata costruzione di un processo a mezzo stampa parallelo a quello formale e via elencando fino, appunto, all’evocazione dei fantasmi del terrorismo. Queste prassi sono, all’evidenza, frutto di scelte rispondenti alla concezione — propria dei poteri forti e assai diffusa nella politica — secondo cui le società si governano in modo centralizzato e autoritario e il confitto sociale è un elemento di disturbo praticato da «nemici» meritevoli di repressione esemplare.
Non è stata una bella pagina quella scritta al riguardo dalla magistratura torinese.
Per fortuna alcuni dibattimenti cominciano a riportare i fatti in un alveo di maggior distacco e attenzione alle garanzie proprio della giurisdizione. Anche ad evitare il verificarsi di quanto denunciato con riferimento alla situazione francese in un documento dell’11 luglio 2014 del Syndicat de la magistrature: «Oggi come ieri, le azioni collettive (…) provocano alle cittadine e ai cittadini in lotta un trattamento penale fuori dal normale: fermo di polizia, test del Dna, comparizione immediata davanti al giudice, una giustizia lampo che produce carcere. (…) Ricorrere alla criminalizzazione di queste lotte — per di più, troppo spesso selettiva — vuol dire rendere illegale ogni prospettiva di contestazione e stigmatizzare un movimento sociale composto da sentinelle che esercitano la libertà di contestare l’ordine costituito».
L’auspicio che si volti pagina risponde anche a una esigenza di governo razionale della società e di recupero, da parte della giurisdizione, del ruolo che le è proprio perché — come ha scritto un maestro come Francesco Palazzo — «un diritto penale che vede nemici ogni dove rischia di accreditare l’immagine di una società percorsa da una generalizzata guerra civile, contribuendo così a fomentare una conflittualità, anzi uno spirito sociale d’inimicizia, che è del tutto contrario alla sua vera missione di stabilizzazione e pacificazione della società».