Il doppio Stato, Genova 2001 e la costruzione della paura
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Il doppio Stato, Genova 2001 e la costruzione della paura

Quel G8 di violenza e ferocia uno snodo storico per capire la nuova strategia della tensione e della repressione. [A. Cipriani]

La Scuola Diaz
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Antonio Cipriani Modifica articolo

21 Luglio 2016 - 12.23


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di Antonio Cipriani (@ciprianis)
Adesso basta.
Siamo stanchi di una narrazione tossica sul G8 di Genova del 2001. Stanchi in genere di quello che la narrazione tossica, declinazione di una politica tossica al servizio non certo degli interessi dei cittadini, sta provocando in Italia e non solo. Mi guardo intorno, quindici anni dopo, e vedo un Paese allo stremo. Impoverito e scemo. Senza coraggio, dove le armi dell’intelligenza e del senso sociale del vivere in una collettività sono sostituite dal niente. Dove il manganello e il razzismo sono accettati socialmente. Dove se spacchi una vetrina o un compressore ti accusano di terrorismo e prendi 10 anni, se spacchi la testa a una persona inerme ne prendi tre di anni. E se porti una divisa, talvolta neanche quelli.
Mi basta questo per capire quello che è stato dai massacri del G8 di Genova a oggi. Per capire che i pestaggi fascisti, la tortura, la repressione e l’impunità hanno vinto e cambiato questo nostro Paese. Chi ha deciso di sospendere la democrazia e massacrare uomini e donne indifesi lo ha fatto per una scelta precisa. Non sappiamo presa da chi, ma i sospetti ci sono tutti.
Andiamo per ordine. Dopo quindici anni che cosa sappiamo di Genova? Molto, ovviamente, perché le violenze furono testimoniate e siamo stati anche condannati sul piano europeo per le torture di Bolzaneto, e per la ferocia della Diaz. Restano punti neri che in breve cercherò di riassumere, per contestualizzare quello che ho appena scritto e che mi farà passare per dietrologo. Lo so, ci sono passato anche altre volte, ma avevo ragione. Però gli accusatori, quelli che hanno sempre raccontato una verità fasulla o edulcorata sullo stragismo, sull’eversione, hanno fatto carriera e oggi sorridono in tv e rappresentano l’ossatura dell’arena mediatica. Sono contento per il loro successo in doppiopetto, ma bisogna avercela scritta nel Dna la capacità dell’obbedienza. Essere giornalisti addomesticati è una dote. Purtroppo non la possiedo. Quindi scrivo disaddomesticato come sempre.
Intanto noto che a distanza di tanto tempo nessuno si è preso la responsabilità di quella follia. Nessuno ha chiesto scusa alle vittime e al Paese civile. Tutto in silenzio, come per le stragi senza colpevoli, come per Ustica, come per le stagioni di sangue che hanno condizionato la nostra democrazia, rendendoci un paese a sovranità limitata. Stesso schema di base. Identici risultati: destabilizzare per stabilizzare, dicevamo un tempo. Non che sia cambiato molto. Come non è cambiato il concetto di Doppio Stato.
Riannodiamo il nastro. Il 2001 è un anno che ha cambiato il mondo. In Italia è partito con una strategia della tensione riadattata alla fase mediatica. Sui giornali e nelle tv non si faceva altro che inneggiare alla paura, l’intelligence sempre attiva nella politica e nella comunicazione, invadeva di veline i media. Sempre lo stesso tono: allarme, allarme, allarme. A mettere paura ai lettori ci pensavano i giornalisti ammanicati, quelli che sanno sempre tutto prima, quelli delle interviste anonime e della fonte confidenziale incappucciata.
Analizzare il dopo, capire come è stato costruito un trappolone, comprendere cause analizzando gli effetti ormai sembra invece fuori moda. Ed è così, perché l’arena mediatica, con tutto il suo apparato di libertà di stampa e cifre ricamate sulla camicia, è propaganda. Propaganda, armata da mani invisibili ma note. In questo caso è utile ricordare qualche titolo dell’aprile 2001, parlando di Genova. Virgoletto il Fatto: “La Stampa il 13 aprile: tra le frange più violente dei cosidetti no global, i tedeschi, che promettono di portare sacchetti pieni di sangue. Non si sa se sarà sangue umano o animale. Nel dubbio ci potrà pure essere la paura che si tratti di sangue infetto. Il 20 maggio, il Corriere della Sera cita ‘un rapporto dei nostri servizi’ diffuso dall’Ansa, che prefigura ‘l’impiego di palloncini contenenti sangue infetto con il virus dell’Aids’”.
Questo è il giornalismo di guerra in salsa nazionale. Paure inferte sul lettore. Una moderna strategia della tensione fatta di stupidaggini che qualunque giornalista non domestico avrebbe confutato, perculeggiando addirittura la velina dei servizi. Invece no, il gusto del sensazionale dei quadri dirigenti dei media, unito all’ignoranza della categoria, ha costruito il corto circuito politico-mediatico con tanto di apocalisse annunciata dietro l’angolo.
La prova generale c’era stata a Napoli, nel marzo del 2001. In quell’occasione c’erano stati cariche e pestaggi immotivati in piazza contro manifestanti inermi. Nessuno ha mai capito il perché. Al governo in quei giorni c’era Giuliano Amato, il ministro degli Interni era Enzo Bianco. Capo della polizia, nominato proprio da Amato e Bianco il 26 maggio del 2000, era Gianni De Gennaro. Non è un dettaglio da poco. Ricordiamo anche che gli agenti facinorosi, i responsabili delle violenze di Napoli furono perseguiti e processati. Salvati solo dalla prescrizione.
Fatto sta che a Genova, qualche mese dopo, con il governo Berlusconi in carica, Claudio Scajola al Viminale, il superattivismo dei servizi raddoppiò con un effetto che secondo il prefetto Arnaldo La Barbera, invece di prevenire incidenti, con una valanga di informazioni fasulle, mandò in tilt ogni investigazione. Prima domanda: perché i servizi, o una parte di loro secondo regole che la storia ci ha illustrato più volte, hanno costruito la polveriera Genova? A chi serviva in quel momento? Capo della polizia, comunque, e il fatto è noto, era ancora De Gennaro.
I Black Bloc. Ci furono, eccome. Si scatenarono e fecero casino. La Digos di Genova fu informata dal Sisde che ne sarebbero arrivati tra 300 e 500 dal Nord Europa. E che cosa accadde ve lo ricordate? Dopo questa gigantesca costruzione della paura, furono lasciati agire indisturbati: attaccarono le banche e anche il carcere di Marassi, mentre tutta l’attenzione poliziesca fu riservata ai Disobbedienti che senza commettere violenze stavano praticando un’azione simbolica di disobbedienza civile entrando nella zona rossa. Addirittura il questore di Genova parlò di un’azione simbolica concordata a favore delle telecamere.
Accadde che invece di contrastare i Black Bloc un contingente di carabinieri, a freddo, il 20 luglio caricò immotivatamente il corteo pacifico di 15mila persone, nonostante gli ordini dicessero che poteva passare. Quando i fascisti nell’animo raccontano che Carlo Giuliani quando è stato ammazzato dai carabinieri in Piazza Alimonda aveva in mano un estintore, dimentica che ragazzi e ragazze di un corteo senza vie di fuga erano stati attaccati militarmente, pestati, investiti dalle camionette. E la guerriglia si era scatenata in modo difensivo contro quelle violenze. Sulle conclusioni giudiziarie del processo per i disordini di piazza, che si concluderà con numerose condanne ai danni di manifestanti: “Si è trattato di un’aggressione ingiusta portata da un numero considerevole di pubblici ufficiali ai danni di una collettività organizzata”. E ancora: ‘Costruendo e portando avanti le barricate su Via D’Invrea e Via Casaregis, resistendo agli attacchi dei militari a piedi e poi dei blindati, inseguendo questi fino allo slargo di Corso Torino, i manifestanti hanno inteso non solo raggiungere i compagni del corteo, ma anche e soprattutto ‘riconquistare’ il diritto a manifestare liberamente, diritto del quale erano stati privati arbitrariamente”.
I carabinieri avevano violato la legge, i manifestanti difendevano un diritto a manifestare conquistato dai nostri padri nella lotta contro il nazifascismo e sancito dalla Costituzione.  Se non è chiaro questo, parliamo di niente. Ma la domanda è questa: perché?
E il perché continua ad aleggiare anche nei giorni successivi. Quando, dopo la ferocia di strada, qualcuno decise di usare ancora di più il pugno di ferro da repressione fascista in salsa cilena. La vergogna della Caserma Bolzaneto, delle torture, della crudeltà di uomini al servizio dello Stato e di medici contro i fermati, grida ancora vendetta. Dopo le cariche e i pestaggi in strada, continuarono le violenze per i fermati, ragazzini e ragazzine presi a caso e portati a Bolzaneto. Ansoino Andreassi ha spiegato al processo un perché: “Procedere ad arresti per cancellare l’immagine di una polizia rimasta inerte di fronte alla devastazione e al saccheggio della città”.

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Anche la manifestazione del 21 contiene elementi di riflessione. O le forze dell’ordine eseguivano ordini criminali o erano criminali. Perché dopo la scintilla innescata dai lanci di sassi dei Black Bloc, le cariche partirono più violente di prima, con lo stesso copione terroristico: pestare i ragazzini, le donne, gli anziani. Gli inermi. Non risultano scontro con le frange violente. Le testimonianze sono in tutti i filmati. Ma non solo: dopo questa ferocia senza motivo, qualcuno dovrà ancora spiegare la causa dell’attacco alla Diaz, scuola trasformata in un dormitorio per centinaia di manifestanti. Un massacro: 93 arrestati, una sessantina feriti, venti dei quali ridotti così male da essere ricoverati in ospedale. Per loro è una fortuna, perché gli altri vengono trasferiti a Bolzaneto, dove subiscono nuove violenze e umiliazioni. Tutti quelli che dormivano nella scuola sono stati accusati di essere black bloc, compreso un signore vicentino di sessant’anni, Arnaldo Cestaro.
Da segnalare che il blitz è stato fatto dopo che i pr della polizia avevano avvertito le principali testate. Più che un’operazione di polizia è stata una spedizione punitiva di 400-500 poliziotti contro le “zecche comuniste”. Non che sia molto cambiato, da allora. Fascisti in polizia ce ne sono davvero troppi e non dovrebbero metterci piede, perché in questo paesi si può essere comunisti, ma l’apologia di fascismo è reato.
Per il racconto della macelleria cilena lascio la parola a Nick Davies: Genova, quindici anni fa: quando in Italia la democrazia fu sospesa.
E salto a piedi pari le polemiche e le prove false costruite per dare una parvenza di ragione all’azione repressiva. Resta una domanda: perché. Una domanda alla quale nessuno ha una risposta. Sappiamo solo che i protagonisti di quella ferocia hanno continuato a fare carriera, che i governi sono cambiati, ma il potere dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro è cresciuto nel tempo. Tanto che il governo Monti lo ha nominato addirittura sottosegretario di Stato delegato per la sicurezza della Repubblica. E il governo Letta presidente della Finmeccanica.
Doppio Stato. Nel frattempo l’Italia è cambiata: è più brutta, razzista, xenofoba, povera, incattivita, senza giustizia sociale e senza futuro. Come sta cambiando la Francia, tra sicurezza estrema e repressione di piazza con la scusa del terrorismo. Ha vinto il manganello. Provvisoriamente, perché la conoscenza, il coraggio, la testimonianza hanno memoria lunga. E non gettare nel pattume della storia la verità è un compito civile anche per l’informazione. Perché parlo di Doppio Stato? Perché nel nostro Paese ha determinato tutto. Non sappiamo quasi niente della storia eversiva che ha insanguinato le nostre strade perché alcuni segreti risiedono in un livello diverso dalle istituzioni democratiche che siamo abituati a conoscere: quelle delle elezioni, delle beghe e dichiarazioni, del Parlamento. Storicamente un doppio livello decisionale ha attraversato la democrazia e continua a farlo. Il modello è chiaro: alcune decisioni sono state prese in ambiti che un tempo chiamavamo atlantici e che erano motivati dalla Guerra fredda e dalla presenza di troppi comunisti in Italia. E poi gli stessi ambienti, con altre motivazioni che non conosciamo ancora, hanno continuato a prendere decisioni e a far sì che i politici al governo ottemperassero. Noi pensiamo ai diktat dell’Ue sull’economia dei Paesi. Ecco, qualcosa di simile, ma che attiene alla cosiddetta sicurezza. Roba pericolosa, che non ha fatto bene alla nostra democrazia. E che temo abbia operato liberamente, senza preoccuparsi di chi fosse al governo se sinistra o destra, anche in quest’epoca. Genova, per me, ne è un esempio.

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Ps
Ai tempi di Palermo, nel 2001, facemmo prima sull’Ora e poi su Tribù Astratte un grande lavoro in tempo reale sul G8 di Genova, sulla Diaz, su Carlo Giuliani. Una controinchiesta a caldo: la prima, la migliore. In quel 2001 erano sul campo, come inviati dell’Ora, a Genova, Lello Voce e Claudio Calia,  insieme con due giovani croniste, Manuela Collarella e Caterina Coppola che dormivano nella Diaz ed erano lì la notte del massacro. Al telefono si piangeva, per i lacrimogeni e per la rabbia. Non abbiamo mai dimenticato quei giorni di sangue e ferocia.

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